lunedì 29 agosto 2011

CORRADO ALVARO - Memoria e vita


Corrado Alvaro
Memoria e vita

Mio padre voleva che il suo primo figlio fosse un poeta. Ora, nel primo anno della sua morte, il primo della sua eternita, ricordo qui il suo sogno e il mio come una promessa che non so adempiere. Pensavo che egli sarebbe vissuto abbastanza da permettermi di offrire un omaggio all’amore che egli ebbe in gioventù per tutto ciò che è disinteressato nell’uomo. Ma so pure che negli ultimi anni della sua vita, quando egli ebbe finita la sua lotta e si sentiva meno grande di fronte alla sorte, egli temeva che un giorno avrei scritto di lui al modo dei moderni, e ciò gli spiaceva. Non riusciva a convincersi che uno scrittore trovi nei suoi vicini i suoi modelli, che i borghesi abbiano salito il piedistallo dove un tempo si collocavano gli eroi, i cavalieri, i santi. Questi erano per lui i soggetti degni di canto, come è ancora pel popolo. Egli era nato nel popolo. Aveva, a dodici anni, valicato l’Aspromonte a piedi per andare all’altro versante, sul mare, dove un suo prozio teneva una scoletta, per imparare a leggere e a scrivere. Un adagio meridionale, forse borbonico, dice che «penna e calamaro furo la rovina dell’uomo». Al nostro paese non c’era scuola; un vecchio abate impartiva un po’ d’istruzione ai ragazzi privilegiati.
Mio padre valicò dunque l’Aspromonte a piedi, scalzo, con le scarpe appese pei lacci alla spalla per non consumarle, e per            
mettersele nuove quando avrebbe fatto il suo ingresso nel paese marino. Gli altri suoi fratelli, invece, emigrarono in America e in Australia dove furono buoni operai e coltivatori prosperi. Uno era nella Virginia, alle segherie delle foreste. Mio padre potè studiare poco, quanto allora bastava per diventare maestro. Da allora fece un patto con l’avvenire: che quanti figli avesse avuto li avrebbe fatti studiare sul serio, e mantenne il suo proposito. Sposò una borghese, nata in una famiglia che, si diceva, aveva pieni di grano i cannicci appesi per le funi al soppalco dei granai. Il nostro era un paese di pastori più che di contadini, e aveva tutto l’Aspromonte pei suoi armenti, ricco, prospero. La borghesia, detta Università, era di tre famiglie di ricchi proprietari. I pastori coi loro anziani e capi abitavano una contrada alta detta il Petto. I maestri d’arte abitavano la parte più bassa del paese detta del Macigno. Le sorelle di mia madre furono date per l’ap­punto a pastori ricchi. Quando si presentò mio padre, fu combattuto da tutto il parentado. Era un uomo a stipen­dio, e perciò considerato un cattivo partito. Non ci volle che il rivolgimento economico degli anni seguenti per riabilitare nell’idea paesana gli stipendiati. Coloro i quali pensano all’Italia meridionale come a una contrada che ha per ideale di vivere a spese dello Stato, riflettano a come è nata tale disposizione. Non è qui il luogo per tracciare quella storia dolorosa, nè per dire come la nostra parte di meridionali nel miliardo annuo che fruttava l’emigrazio­ne, assorbita dalle grandi banche attraverso il sistema delle piccole banche locali, adoperato per fondare la grande industria, e non precisamente da noi, fu alla fine distrutto attraverso le piccole banche che fallirono pun­tualmente travolgendo tanta economia meridionale fatico­samente conquistata. Priva d’industrie, rovinata, divenuta un terreno di sfruttamento dell’industria non locale, al livello di poco più che una colonia, si capisce che la sola speranza fu il pane dello Stato.
 Dico queste cose breve­mente per i signorini che reputano l’Italia meridionale economicamente e intellettualmente una contrada di mo­retti convertiti, dimenticando quanto sudore di sangue essa diede, e quanto al pensiero italiano di veramente sostanziale, nell’orbita universale, da Vico a questa parte, fuori della retorica provinciale che tuttavia ebbe il tempo di guastare la più realistica tradizione del mondo. Ma di ciò basta.
Che mio padre avesse una disposizione d’animo e d’ingegno inclinata alle arti, mi torna vivo alla mente se ripenso a lui. Non lo avevo veduto così chiaro prima d’ora che i ricordi si sdipanano come deve accadere davanti alle cose finite e alle creature che hanno chiuso gli occhi. Egli era diventato, senza rendersene conto, il regolatore di tutte le manifestazioni del nostro villaggio, e non come impresario o promotore in prima linea, ma come voce della tradizione, come testimone e fedele. Amava le tradizioni, le consuetudini, le ricorrenze, tutto ciò che è ordine e tutto quanto è memoria e vita. Dicevano che portasse fortuna con la sua presenza, e tutte le mattine del primo d’ogni mese era suo compito entrare nelle case degli amici per primo «col buon piede», bono pede come dicevano i Romani che avevano il medesimo rito. Si levava all’alba e si metteva in giro per le sue faccende. Aveva una voce forte e sonora, di testa, ma piena; non ebbe mai voce da vecchio, per quanto sia morto a settantasei anni. Era la sua voce che si sentiva prima all’alba. Al nostro paese non esistevano, allora, altre botteghe che un’osteria, un negozio di manufatti e di droghe, tenuti da forestieri, gente di Amalfi. Vendite di pane si videro più tardi, dopo la prima guerra europea, e così vendite di generi alimentari. Ognuno aveva le sue provviste annuali d’ogni cosa che serve al vivere. Era una vergogna comperare il pane, il segno della vera poverta.
L’occupazione prima di mio padre era quella di girare per le merci che dava la stagione, trattare, esaminare, compe­rare; prima delle otto , prima della scuola. Che egli facesse questo soltanto per necessità non mi pare. Era innamora­to delle cose, degli aspetti delle cose, della loro forma, dei loro colori e della loro consistenza. Era curioso della vita, degli uomini, degl’incontri. Da noi allora gli uomini erano molto differenziati, pressappoco come attori d’un teatro popolare, e come le figurine dei presepi. Proprio a questa curiosità instancabile della vita appartengono i gesti che meglio ricordo della vita di mio padre. Andava­mo la sera a passegiare su un’aia, che era un luogo riservato alle persone di condizione. Di là passavano le contadine, le pastore le acquaiole, i pastori che tornava­no a ogni nuova luna dalla montagna, coi loro cesti, i fardelli, gli orci, e i discorsi lunghi nella brezza serale. Era un paese cortese. Le donne mostravano e offrivano quello che portavano, e perfino l’acqua da bere; posavano il loro carico su un masso. Erano certi massi di pietra arenaria che stavano attorno all’aia e avevano apparenze di persone. Mio padre aveva la curiosità di vedere quello che la gente offriva. Quando era di maggio, le bimbe e le ragazze recavano certi  mazzolini di fiori di campo legati stretti come pigne con  uno stelo di ginestra. Tutto voleva vedere mio padre, dai visi ai frutti, e profittava di quel modo gentile delle persone. Le parole più frequenti che sentivo da lui erano:"vedi, guarda". Siccome mia madre gli aveva portato in dote un campo con la sua casetta, noi andavamo spesso a cogliere i frutti, e poi per tre giorni, di settembre a vendemmiare con le donne. Non c’era frutto che mio padre non offrisse senza farne notare il colore, la bellezza, la forma; e poichè era lui a distribuirli seduto davanti al cesto, e a sbucciare finchè eravamo sazi, era una cerimonia. Mia madre se ne infastidiva qualche volta. Ella è di tutt’altro tipo,taciturna, segreta e discreta: dice  quello che pensa quando non può farne a meno, e spesso dopo anni e anni ricorda cose precise, parole, atti, ma senza rimprovero, come una testimone. 
Mio padre era invece molto esteriore, per nascita; sulla sua famiglia correva la fama di gente piuttosto bizzarra e piena d’umo­ri. Egli manifestava tutto subito, come subito s’impressio­nava. Ricordo la sua voce lieta al mattino della domenica, esultante nei grandi giorni dell’anno. Nel distacco tra sonno e veglia, quel primo piacere infantile di tornare nel mondo luminoso e la gioia di ritrovare un mattino di festa diventava una cerimonia con quella voce prepotente che si metteva a cantare o a imitare i suoni che avremmo udito quel giorno di festa, la zampogna, il piffero e il tamburo, la musica primitiva dei tre pastori vestiti di lana, e che era detta musica pelosa. Quando era Natale, egli faceva suonare il piffero di canna con la pallina di cera, o quello ad acqua che imita bene il canto dell’usignolo e che rosignolo è chiamato. Prima di Pasqua, egli agitava la raganella, o il flagello di canne che per gioco i ragazzi si battevano sulle spalle. Così mi svegliava. Riponeva questi strumenti a festa finita, per l’anno seguente. Queste cerimonie facevano per lui parte dell’educazione. Era capace, e lo fece fino all’ultimo anno della sua vita, di tenere in serbo certe cose che ricordano le feste. Da noi le arance finiscono già con l’inverno. Quando mio padre dava il pranzo dei poveri, a San Giuseppe, aveva il suo cesto di arance messe in serbo. San Giuseppe è da noi una bella festa, o lo era. S’invitavano a pranzo i poveri vecchi i quali sedevano a tavola mentre i padroni in piedi li servivano. La minestra rituale era la pasta coi ceci. In questa inversione di fortune per un’ora consisteva anche un’altra festa dell’anno, ed era il Carnevale; i contadini mettevano l’abito dei signori, e i signori quello dei pastori e dei contadini. Erano le due circostanze in cui si dava lo spettacolo d’un rovesciamento delle condizioni umane.
Mio padre era il fedele di tali cose, e di tutto quanto era tradizione e forma. Si può dire che visitasse tutte le mattine il paese come un grande teatro. Quella da noi era l’ora più bella e più popolata, sull’alba, piena di gridi, di richiami, di garriti, quando tutti partivano pel lavoro in montagna e nei campi, o pei loro traffici, e perciò adatta a incontrare la gente e a sentire dei suoi bisogni. Non avevamo medici né farmacisti né avvocati. Mio padre faceva, per bontà sua, da consigliere, dato che il diritto naturale ha, nella mente della gente semplice, tegole spesso opposte al diritto scritto; e oltre che maestro, in un paese di analfabeti, sbrigava tutte le faccende che richie­dono penna e carta. Scrisse quasi tutte le lettere di trent’anni di emigrazione tra mogli e mariti, padri e figli. Perciò sapeva di legge e di medicina. Naturalmente, tutto questo era fatto graziosamente, e come per un dovere da parte sua che aveva un’istruzione. Me lo ricordo la sera, accanto al lume a petrolio, con la penna nel pugno della mano breve che oscillava sulla carta prendendo l’avvio alla scrittura. Aveva una bella scrittura chiara, ordinata, un corsivo da saggio di calligrafia. Per questo suo ufficio sapeva tutto di tutti. Perciò i suoi discorsi quando incon­trava la gente erano come d’un familiare, e non finivano presto. Io gli andavo sempre dietro, curioso della vita virile. Così feci conoscenza della gente nelle stanzette a terreno, senza pavimento, colla roccia della montagna inclusa tra le quattro mura come un mobile, che serviva da focolare e per posarvi la fiaccola di legno di pino che era il mezzo più comune d’illuminazione. I pastori gli avevano fiducia. Fino a tardi nella sera la nostra porta era aperta, si sentivano i passi scalzi delle donne o striscianti dei calzari degli uomini, che venivano lentamente per la scala di legno. Si sentiva un ansimare, e qualcosa come fagotti che si trascinassero,ed erano i bambini e le bimbe già vestiti da pastorelli e da massare, che facevano le scale
a quattro zampe non essendovi abituati. Essi tutti chiama­vano mio padre «signor cugino».
 Ci portavano qualche volta una ricotta, un formaggio, un agnello, un qualche animale cui avevano dato la caccia in montagna, un ghiro vivo o una marmotta per giocattolo dei piccoli della casa. Era un paese ricco, ho detto. A nostra volta noi scambia­vamo i regali coi signori del luogo o di fuorivia: ci si scambiava così il primo vino, e si faceva e si riceveva il dono dell’uva dopo la vendemmia. Mio padre aveva il senso dell’umorismo. Scherzava coi pastori, dava risposte inattese, strane e pungenti. Quelli rimanevano a bocca aperta e dicevano che era malizioso. Aveva un parlare pittoresco, un dialetto stretto e arguto con vocaboli appropriatissimi; lodava le donne con un linguaggio aperto, fiorito, allo stesso modo che lodava i frutti e ogni cosa necessaria. Non c’era che lui a saper far ridere le donne più bisbetiche come sanno essere bisbetiche e virili da noi. Esse «si spaccavano dalle risa», come egli diceva. Coi suo pari, che lo avevano veduto nelle brache di ragazzo povero a brandelli, egli poteva essere un motteg­giatore atroce. Difatti anche per questo lo temevano. Negli anni della mia infanzia, io lo ricordo di frequente in un abito che ripenso curioso, una giacca a falde, un tubino, un paio di stivali a mantice. Quando parlava italiano, aveva un linguaggio letterario che aveva impara­to nei libri suoi favoriti dell’Ottocento. Citava spesso Manzoni. Dalla sua considerazione e attenzione verso tutte le cose, sensibile, pronta, fantasiosa, proveniva forse in lui quello speciale ingegno per cui era all’occorrenza buon falegname, viticultore, muratore, apiaio, ogni mestiere che si mettesse a fare. Con le colature delle candele della chiesa, dove andava a cantare nelle grandi occorrenze, e dove cantò il ((Miserere» per i suoi amici morti al loro turno, combinava certe candeline di cui si serviva, oltre che con la cera odorosa dei suoi alveari. Dell’ultima ci servimmo per rischiararci la prima sera della sua morte. Una ne faceva e cento ne pensava. Era ordinatissimo ed economo. In dispensa, dove metteva tutto a posto lui, appesi i frutti, ordinati i vasi e le giare, custodito il vino e l’olio, come dappertutto aveva un ordine da monaco. La nostra casa era povera, ma fornita al confronto delle altre, e aveva per lusso un letto matrimoniale dipinto a smalto con vedute di Venezia sotto la luna, un canterano di noce, un divano, una vetrina pei piatti e i bicchieri. La dispensa era foderata di figure e incisioni di romanzi. C’era da fantasticare. Non si trovava in casa nostra un oggetto fuori posto. Perciò egli non aveva mai riposo. Aveva un viso antico, colore di terracotta, gli occhi castani mobili e intelligenti, piuttosto maliziosi. Somigliava a una creatura mitologica silvestre. L’ultima volta che venne a trovarmi a Roma era di Natale e io avevo disposto un piccolo presepe. Egli cavò all’improvviso di tasca il piffero di canna delle nostre novene, e si mise a modularlo davanti al Bambino. Natale era la sua festa più grande. Cantava in chiesa presso l’organo una ninnananna scritta da lui, di cui ricordo alcune strofe, ma di cui due versi mi hanno sempre data l’idea di come egli vedeva e sentiva; sono due versi in cui si descrive, con una sintassi piuttosto angolo­sa, la "Strage degl’Innocenti  " . Essi dicono:

"  Sui fanciulli con spade le squadre
farne strage son pronte a obbedir "

e in essi mi aveva impressionato, fin da piccolo, il movimento dei soldati che snudano le spade e marciano al passo del verso. Non ho detto prima che egli era un rimatore in dialetto, e spesso saporitissimo, come improv­visatore migliore di lui era stato quel suo prozio da cui egli andò a studiare passando l’Aspromonte, e che io conobbi in età di novanta anni.
 Con queste cose mio padre si prolungava la giovinezza e addirittura l’infanzia. Io lo considerai uomo quando ero ragazzo, e a mano a mano che lo vidi invecchiare e imbiancare mi parve sempre più vicino alla fanciullezza del mondo.
Voglio dire ancora fino a che punto egli amasse la vita e le sue apparenze. Fino all’ultimo giorno che rimase sulla terra che egli amava come un figlio affezionato e grato, contento della luce, dei colori e sapori, felice dell’acqua, cauto amico del vino, egli andò all’alba a trovare i suoi parenti e nipoti, e dappertutto sollecitando:
«Non ti sei ancora levata» (<Accendi il fuoco» «Che ne è di tuo marito e di tuo figlio?». La vita era il suo teatro. Aveva pensato di stabilirsi a Roma, qualche anno fa, con mia madre. Qui egli aveva preso l’aria freddolosa e rattrappita degli emigranti in qualche lontano paese. Non volevo vederlo così, mi faceva pena, per la prima volta nella sua vita, e lo consigliai di tornare a casa dove egli era insieme fedele e padrone. Per la prima volta mi sentii più adulto di lui, e incompatibilmente meno felice.
Se la storia della mia famiglia si fosse svolta natural­mente, avrei potuto essere, a quest’ora, come i miei zii paterni e cugini, operaio, carpentiere, falegname, agricol­tore in qualche parte del mondo nuovo. Ma come aveva sollecitato il destino mio padre mi ha portato ad essere uno scrittore. Mio padre aveva fatto quella promessa e preso quell’impegno: una mattina ci videro partire, tre fratelli, sui muli, per la stazione sul mare. Avevamo un corredo tutto di lino, i materassi gonfi e le coperte calde filate da mia madre la quale temeva come peggior nemico della vita il freddo. L’idea di mio padre fu di mandarci lontano ad apprendere le buone maniere e un linguaggio corretto. Ci mandò presso Roma. Anche a Roma aveva conoscenti, come le hanno in certe città di approdo o di passo gli emigranti. Erano calabresi.
Ad essi portò doni e ricordi della nostra terra e ne ebbe in cambio il letto per la notte. Per lui era come se non esistessero alberghi. Devo dire come egli ottenne per i suoi pochi denari accumulati faticosamente, che ci tenessero tre ragazzi pagando la retta per due, e lesinando sulle spese varie che sono il terrore dei genitori che hanno ragazzi in collegio. Come egli amava fantasticare sulle cose sensibili, così amava fanta­sticare sulle cose lontane e sconosciute. Si faceva mandare cataloghi di merci dai grandi magazzini urbani, e li leggeva diligentemente. Così era informato di molte cose. Credeva a quello che leggeva stampato. Leggeva spesso ad alta voce, con una lieve declamazione. La parola stampata diventava rotonda e solenne. Così, fra tanti cataloghi, scelse l’istituto romano, ed ecco come ottenne le facilitazioni per noi. L’istituto dipendeva da un porpo­rato amico dei gesuiti. Mio padre si presentò a quel porporato con un cesto di frutti del nostro paese. Io non ricordo esattamente come andò la scena, né se pure la vidi o non sia questo ricordo il frutto d’una mia fantasia, come accade spesso per le testimonianze dell’adolescenza: ma vedo il gran porporato sulla sedia dorata alta sulla predel­la, mio padre atticciato, piuttosto piccolo, e in ginocchio come sapeva star lui che sembrava un pastore di presepe, e il suo cesto poteva dargli quell’aria; mi pare di ricordare il riso indulgente del cardinale. La cosa era fatta. Mio padre aveva per consuetudine di mandare a chi fosse nostro amico o che ci giovasse, le cose del nostro paese, i frutti, gli animali, i formaggi. Credeva all’efficacia di questi doni. Credeva che noi avessimo al paese le cose più genuine del mondo per rendere agevoli le persone. Alle feste ci mandava la specialità senza di cui per noi non era festa, e che erano altrettanti simboli del Natale o della Pasqua. 
Quando io mi disabituai a queste cose, era come se mi fossi svezzato. Negli ultimi anni, quando fu a pranzo in casa mia per alcuni giorni, e mi aveva portato le sue provviste come per rendermi più facile l’ospitalità, fra cui il pan biscotto che da noi si cuoce per fornirsi nei lunghi viaggi, pellegrinaggi, e per la vita di montagna, egli si accorse che certo cibo era più dolce in città, al confronto di qualcuno dei nostri sapori troppo potenti. Ricordo come egli se ne rese conto, come non voleva convincersene, e come evitò di parlarne, e avendo voglia del cibo nuovo toccava a quello nostrale come per non dispiacere a qualcuno, alla sua fedeltà e parsimonia. Si poteva temere di dargli una delusione, tanto egli amava la fantasia che si faceva delle cose, e non voleva aprire gli occhi per vederne la realtà. Come tutti gli uomini che costruiscono con la fatica la loro vita, io ebbi a traversare tempi duri. Mio padre, cui qualche volta mi confidavo per lettera, mostrò di non arrendersi mai a tale idea, non vi credette o non ci volle credere. Gli rincresceva che io trovassi difficoltà e non voleva, e non volendo credeva che non fosse vero. Per conto mio, applicai tale atteggia­mento, e devo dire che il dolore e la sofferenza, affrontati con la convinzione che siano relativi e soltanto un offu­scamento della sorte più certa, sono più facili da soppor­tare e da vincere. Una natura siffatta aiutò mio padre per tutta la vita più travagliata che affrontò per noi. Io finii per non scrivergli più di fatti che egli potesse sgradire. Egli arrivò perfino a inventare certi incontri con gente che gli parlava bene di me, o per lo meno a esagerarli, perché aveva un talento sorprendente a interpretare nel miglior senso le parole degli altri, a leggervi quanto non vi era espresso. Inventava o amplificava tali cose e finiva a credervi egli stesso; spesso ricordava incontri lontanis­simi, un segno di attenzione, una parola cordiale. Mento­vava i miei amici uno per uno, con ogni tratto che io gli avessi raccontato venticinque anni prima, e senza cono­scerli me ne chiedeva notizie nuove. Di essi ricordava tutto quello che aveva saputo da me, e poiché viveva in un paese lento e assorto, e rifletteva molto sulle cose, s’era formato di coloro un ritratto, sulla base di tali indizi, che rispondeva spesso alla verità, e come se avesse una consuetudine di anni con quelle persone e quei personag­gi. Quello che più lo impressionava negli uomini era il contegno. Se io dicessi ai miei amici e a chi fu buono con me che mio padre serbava di loro una fedele memoria, e che di essi ricordava, attraverso i miei racconti, tratti e modi, credo che ne rimarrebbero stupiti. Stupiti di certe loro sentenze riportate da lui con le loro stesse parole. Egli viveva con essi, li considerava attraverso la mia testimonianza. A volte mi chiedeva all’improvviso quello che facesse l’uno o l’altro, e si trattava spesso di gente che io non rivedevo da anni. Questo faceva parte d’un suo talento umano particolare: difatti non c’era che lui per rifare il tratto e il linguaggio d’una persona. Stimava l’ingegno sopra ogni cosa, e poi la cultura, infine la ricchezza di cui aveva il rispetto e il terrore come d’una potenza occulta. Diceva di sé che era capace di raccogliere il denaro a centesimi e di poterlo spendere senza pensarci a piene mani quando fosse necessario: «avaro della cenere e prodigo della farina».
Il fatto è che per difendersi nella vita aveva dovuto fare una esperienza amara, e solo per le sue virtù di saggio amministratore vinse. Perché se n’è andato via dopo aver vinto. La sua prima vittoria fu quando sposò la ragazza borghese che è mia madre, figlia d’un uomo non meno di lui vivo e forte. Io ne avevo sentito parlare da piccolo con molto timore. Era stato allevato dagli scolopi, e poi tornato al paese dove possedeva armenti e terre, e dove fece il segretario comunale. A quel tempo, che io non ero nato, sindaco del mio paese era un pastore col suo costume d’orbace, i pantaloni corti e i calzari ai piedi. I pastori avevano il loro partito e la loro potenza e aristocrazia. Dicono che quando apparivano quei due, il sinda­co col suo segretario, nel capoluogo di provincia o del circondano, era un affar serio: tutti e due cocciuti e duri, l’uno armato dell’istinto e l’altro d’un ingegno riottoso e protervo coi prepotenti, d’un rigore quasi inumano con la legge in pugno. Avendo sentito parlare di mio nonno in casa, mi appiattavo dietro a un masso che stava davanti alla sua casa, e aspettavo di vederlo comparire alla fine­stra, coi capelli ritti, gli occhi azzurri, solitario e passeg­giante all’infinito nella stanza dove le donne di casa entravano dandogli del voi, a cominciare dalla moglie. Era già il tempo che mio padre e mio nonno non si parlavano più, erano nemici, come si dice da noi, attri­buendo a questa parola un netto significato sociale e una condizione non meno franca dell’amicizia. 

Il nonno, quando ebbe data mia madre a mio padre, dopo molte traversie, scene da novella, fra cui una memorabile, quando dopo aver ammesso finalmente il pretendente di sua figlia a tavola, vedendo che la figlia guardava con troppo incanto il suo innamorato, tirò a sé la tovaglia apparecchiata rovesciando ogni cosa e cacciando fuori di casa il giovane, il nonno, dunque, data la figlia a colui, se ne pentì e si mise a perseguitarlo, sino a fantasticare di cacciarlo dal paese. Senza ragione, e perciò senza riuscirvi. Se egli era d’un rigore rimasto famoso fra chi lo conobbe, mio padre era sottile e arguto come un antico. Molti stratagemmi dovette ordire nella sua vita, e uno voglio ricordarlo. Dalle elezioni d’un certo deputato amico di mio nonno, costui si augurava un alleato che avrebbe potuto dar noia a mio padre con qualche autorevole prepotenza. L’elezione di questo deputato poteva anche dipendere dai voti che egli si aspettava dal mio paese. Mio padre era scrutatore alle urne. Le schede della votazione, se fossero state macchiate o comunque contrassegnate, erano ritenute non valide.
Mio padre si mise la puntina d’una matita sotto l’unghia, e a mano a mano che tirava dall’urna la scheda, dopo aver letto il nome del suo temibile personaggio, vi passava dietro insensibilmente l’unghia segnandola con la puntina di grafite. Dopo di che rivoltava la scheda, la mostrava segnata e la faceva dichiarare nulla. Difendeva questa volta la sua casa, i suoi figli, la vita sua e nostra, da quella gelosia ancestrale del nonno, una gelosia biblica, verso quella tenera colomba che era mia madre. Quando io nacqui, mia madre aveva sedici anni.
Ma la lotta con mio nonno non fu la prima di mio padre né la più grave, poiché era piuttosto soggetto di commedia che di dramma, e alla fine la vecchiaia placò colui, e mia madre tornò a trovarlo nascostamente, men­tre mio padre fingeva d’ignorare quel traffico. Dopo la morte di mio padre vennero a trovarci anche molte donne del paese, le più giovani e le più vecchie: quelle non parlavano perché non avevano memoria né esperienza, queste invece tesserono la storia della sua vita, e quindi della mamma, e le ricordarono appunto quella ostilità paterna alle sue nozze, la fortuna della casa dove era nata, l’ingegno e il rigore di suo padre, l’audacia di quell’uomo che se l’era presa essendo povero, e come poi quest’uomo ne aveva fatto ugualmente una signora e come una signora la serviva. Difatti scoprimmo nei giorni seguenti che mia madre non sapeva quasi dove fossero le cose di cui disponeva la casa, poiché il marito ne aveva tenuto l’ordine per quarantasei anni, cercando di non darle un solo pensiero né una cura molesta. Questo era il lato familiare di mio padre. Egli stimava poco l’ordine di cui era capace la mamma; di ordinato non c’era che lui. Anche durante le nostre visite a casa pretendeva che ci assoggettassimo all’ordine suo. L’ordine era per lui un risparmio di tempo e di fatica, un lusso signorile, la signoria dell’uomo sul mondo. Puntava al muro certi  pezzi di carta su cui aveva scritto ogni cosa che dovesse fare, nomi di persone e di cose. Spesso vi trovavo segnato il nome dei miei amici, e sapevo che nella giornata egli mi avrebbe domandato meticolosamente dell’uno o dell’al­tro. Mia madre sorrideva di tanto ordine che era un’oc­cupazione, una lotta perpetua con gli oggetti e le appa­renze della vita. L’ordine era la sua tirannìa.
Sia un male o un bene la fuga dei meridionali fuori dei loro paesi, se non vogliamo riscontrare in essa un segno dello stato sociale e l’esplosione d’un istinto, mio padre fu a ogni modo l’uomo che diede l’avvio nel mio paese, alla fuga per mutare condizione. Ora che ripenso a quel fatto di trentacinque anni fa, lo trovo nato nello stesso punto della fuga generale di tutti i calabresi intra­prendenti e non rassegnati a vivere tra forme di vita feudale dove ognuno diventava il servitore del più ricco e del più potente. Il mio paese non fu mai contento di questa fuga che mio padre aveva preordinato prima che noi figli nascessimo, per cui aveva cominciato a fare economia fin dal primo giorno del suo matrimonio, come il tema di tutta la sua vita. Il paese era abituato all’emi­grazione, che era cominciata già con lo scavo del Canale di Suez, e che si concluse con le Americhe e l’Australia. Ricordo ancora che in quel paese disadorno, dove non si vedeva una sola scritta sui muri, e dove i decreti erano gridati da un banditore, c’era l’ufficio d’un rappresentante le compagnie di navigazione transatlantica, coi manifesti dei vapori nostalgici alle pareti. 

Ma un’emigrazione intel­lettuale nessuno l’aveva mai pensata. Dopo, molti imita­rono mio padre; ma la lotta che egli aveva sostenuto fu grave, fatta segno a continue cattiverie. Ma qualcuno lo incoraggiava e lo aiutava. Fra lui e il paese si era formata quasi una scommessa. Il campo gli dava il vino, gli ortaggi e i frutti, poi potè avere bestie da affidare a qualche pastore, ma tutto quanto attraverso sacrifici di ogni ora. Io so che cosa era per mio padre una cosa necessaria alla vita. Come se l’avesse in serbo per un viaggio in un deserto. Io conosco l’importanza del pane e del companatico, e la regola per gustarli meglio, che èrispettarli come doni di Dio. Da noi, un pezzo di pane che cade in terra si raccatta e si bacia. Poi, l’uno dopo l’altro, i figli si cercarono da vivere e alleggerirono il carico familiare. Alla fine, nella rovina della pastorizia, cioè di tutta l’economia paesana, mio padre si trovò ad essere un uomo che disponeva di un po’ di denaro. Aveva anche due figlie che mandò a marito, e come era stato con noi ragazzi cauto per necessità, con esse fu generoso non rimanendogli altri cui pensare. Ma questa condizione d’uomo che aveva vinto non gli conciliò le antiche inimicizie. Di quella lotta continua non dirò molto; basti che quando un mio fratello, il secondo di noi, morì, i nostri nemici fecero festa perché uno era caduto. L’invidia è il peccato mortale delle regioni povere: nei migliori diventa emulazione, ambizione, sprone alla conquista. Io non m’intratterrò su quella che pure fu la lotta più tenace di lui, la bellezza della sua vita, la modesta grandezza del padre e dell’uomo. Perdono ai nostri nemici perché ègente del mio stesso sangue, che io amo e amerò sempre. Compiuta l’opera, mio padre fu come disoccupato, non avendo altro scopo per sacrificarsi, e avendo preso, del sacrificio, i modi più commoventi, la sua dignità.
Eppure, noi tre figli maschi non eravamo ragazzi che si potessero adattare alla vita civile facilmente. Venuti da un paese così denso, eravamo riottosi, fantastici, difficili. Passata l’infanzia fra tante cose care che parlavano al cuore, dolci e ingenue, aspre e, perché aspre, dolenti e feconde d’amore, ci adattavamo male alla vita urbana. Aperti gli occhi su un mondo primitivo ed evidente, tutto il resto ci apparve assurdo e incolore, arido e senza scopo. Avevo passato dieci anni in quel mucchio di case presso il  fiume, sulla balza aspra circondata di colli dolcissimi digradanti verso il mare, i primi dieci anni della mia vita, e pure essi furono i miei più vasti e lunghi e popolati. Il paese era gramo e povero in confronto alla ricchezza del mondo, e a me pareva il più ricco e il più vario. Non dirò dell’impressione che mi fecero prima le cose dell’arte, a me che avevo veduto soltanto i santi delle chiese come un mondo di sublimi pensieri. Tracce d’arte al mio paese non v’erano se non un gran portone bugnato ora demolito anch’esso, e infine certi mascheroni d’un vecchio palazzo rovinato, e che mio padre fece mutare e conservare sulla facciata della nostra casa, in piazza, cui aveva aggiunto anche una meridiana solare. Altri oggetti mio padre aveva rinvenuti nei campi, o in Aspromonte, ed erano serpenti e conchiglie fossili, orci greci d’una fabbrica di vasaio che era rimasta sepolta sotto un monte di terra, e qualche antica moneta. Da noi s’era attendato Pirro, poi Annibale; siamo in territorio locrese, e la memoria di quella vita affiora di quando in quando. Esistono ancora favole che confondono in una le civiltà che vi approdarono, quella greca di cui rimangono ancora antichi canti e un fondo linguistico, quella cristiana che da noi sbarcò prima, tanto che si parla di Sansone o di Gesù come se fossero stati tra noi, e quella monacale remota come le nostre montagne, e quella cavalleresca di Orlando paladino arrivata come il polline sul vento. Mio padre, poi, era solito leggere nelle lunghe sere d’inverno, al canto del fuoco, certi libri a mia madre, romanzi in genere, di Cantù, Manzoni, d’Azeglio, Balzac, e più tardi di Mastriani. Mia madre ascoltava e teneva tutto a mente, e spesso con la fantasia precedeva lo scrittore. Io ricordo vivamente l’apparizione di quei per­sonaggi, e collocavo nell’ambiente del paese, tra il palazzo e la capanna, tra la mia casa e quella del vicino, le vicende che sentivo leggere. 
Poi, quando mi misi a scrivere, mio padre ebbe sempre nella mente quel modello romantico, e il      mio parlare di cose comuni non lo convinse mai del tutto. Accanto a quel fuoco imparai a fantasticare, al punto da creder vero quello che leggevo. Meglio, di averlo vissuto. Una volta raccontai ai miei fratelli un’av­ventura che avevo letto, e la riportai in prima persona, come se avessi trent’anni anziché tredici, avessi viaggiato, conosciuto strana gente e veduto apparizioni straordina­rie. Solo dopo un momento di riflessione i miei fratelli mi osservarono che non poteva essere, dato che eravamo sempre stati insieme, e non sapevano quando io avessi potuto vivere simili avventure. Ciò che per la verità stupì anche me, e mi ritrovai caduto sulla terra. Il principio della nostra vita nuova nel mondo fu dunque durissimo. Coloro cui eravamo affidati non capivano che gente fossimo, dominati da trasporti di sentimenti eccessivi e opposti. Io m’ero portata un armonica dall’ultima festa, e all’improvviso, nel silenzio generale della camerata, mi mettevo a suonarla. Tra l’altro i libri cominciavano a possedermi, e in un taccuino segreto andavo annotando i titoli dei libri e gli autori che un giorno avrei voluto leggere. La novità del mondo era tanta che non riuscivo a contenerla. A volte, aspettando di vedere o di conoscere una cosa l’indomani, vegliavo tutta la notte con gli occhi sbarrati che il giorno apparisse. Tutte le nozioni e cono­scenze ed esperienze si affastellavano nella mia mente, tutto era nuovo, di ogni cosa avrei voluto possedere intero il segreto. Ricordo quello stato di sogno, di dormiveglia, di vita tutta dietro alle cose su cui fantasti­cavo sbandando dall’una all’altra. Mi sembra di essere stato malato fino all’età della ragione.
Ma di ciò basta. Non sono qui a parlare di me, e chiedo scusa di averlo fatto. E che non sono mai riuscito a spiegare a mio padre la ragione per cui sembrava che io non profittassi dei suoi sacrifici, al punto da sembrare inadatto a ogni forma di applicazione. Ero come uno che
fa un viaggio in paesi strani e incredibili, stanco allo stesso modo di aver troppo veduto. Parlando di mio padre, devo in qualche modo parlare di me. ~. ..] Io mi sento ora il suo viso, i suoi modi, il suo corpo, le sue mani. Mi sento in qualche modo il suo animo, e senza aver saputo per anni gran che della sua vita, mi sono bastati pochi accenni per capire come passò i trent’ anni che ci separarono, meno qualche intervallo, fino alla sua morte. Alla fine egli si contentò che io potessi giovare in qualche modo alle mie sorelle, che insomma assolvessi ai miei doveri di fratello maggiore quali si concepiscono ancora da noi. Su tale punto si mise tranquillo. Avendo passata tutta la vita a pensare ai figli e al domani degli altri, questo fu il suo tema dominante, il suo grande tema. A volte egli era preso da curiose simpatie per il destino di qualche ragazzo estraneo, alla fine vennero i nipoti e vi si dedicò con la speranza dei suoi anni giovani. Quanto a me non mi capiva più, e disse una volta che non sembravo nato nel nostro paese.
Ma io lo capivo assai bene, e mi sentivo, a mano a mano che passavano gli anni, sempre più vicino a lui, confuso con lui. Sul principio la vita è tutto un lavoro per sciuparsi, non assomigliare al padre. La libertà del corpo giovane può atteggiarsi in modi diversi, con la grazia comune a tutti gli animali della creazione. Uno è libero, padrone di sé, fuori di quella dolce tirannia dell’infanzia, aspra nell’età in cui si conquista la propria personalità. Ma a un certo punto qualcosa di angoscioso e di prepotente s’impadronisce di noi, allo stesso modo che l’idea della dolce morte di tutti gli adolescenti, la morte romantica e giovane come è giovane nei poeti del tempo della Caval­leria e di Dante che parlano dolcemente di morte, la dolce morte, dico, diviene certezza amara del destino terreno, e il pensiero è grave e immenso. Così come tale verità s impadronisce di noi e d’ogni nostra fiaba, di noi s’impadronisce l’immagine paterna, e sotto i cieli più lontani, nei pensieri più diversi, nei momenti più estranei, ecco l’atteggiamento del padre si riscopre in questa struttura del corpo, come del corpo della madre s’impadronisce l’idea del figlio. È questo uno dei misteri più tremendi dell’uomo, questa seconda nascita nell’età matura, sul punto stesso in cui nasce in noi l’uomo. 
Come un’armonia prepotente ci guida, nello schema paterno si riscopre il nostro schema. Parlo qui di cose occulte, di veri e propri misteri. Ma sollevando questo velo maestoso, vorrei dire che la rivolta dell’uomo contro questo è la sua rivolta sociale, il suo scardinarsi da un’armonia, il suo mettersi fuori legge. Mi rimangono ancora nella mente le discus­sioni che da noi, come presso tutta la gente primordiale, si fanno intorno alle somiglianze. Io ricordo del nonno materno una volta che ci trovavamo a tavola. Egli era andato ad abitare in un paese più alto sull’Aspromonte, e noi ci trovavamo suoi ospiti. La sera, a cena, io ricordo i suoi occhi azzurri puntati su di me, e la domanda improvvisa: ((Ma a chi somiglia questo ragazzo?». Non mi preferiva perché non somigliavo a lui. La discussione andò avanti, non so come finì perché mi addormentai. Ma all’alba vidi mio padre curvo sul mio letto, che mi diceva:
((Vèstiti, si scappa di qui, perché abbiamo leticato col nonno». Conosco quest’impressione che devono ben co­noscere gli animali se hanno un barlume più luminoso dell’istinto; ricordo come si indaga nei paesi sulle somi­glianze, e come tornandovi a distanza di anni io possa confondere i nipoti coi nonni, i figli coi padri, come ritrovo lo stesso vecchio albero là dove era un virgulto. E un giorno mi sono trovato a riordinare le mie cose gli avesse parlato. Gli piacevano le discussioni e sentir discutere. I pensieri disinteressati lo affascinavano, e le teorie, le fantasticherie, col loro seguito di bizantinismo che è proprio dei calabresi, e il talento, anche negli umili, di filosofare. Rimaneva incantato e rapito. La sua più grande gioia fu quando mi vide adulto e capace di ragionare. Se aveva un’attitudine, era proprio questa dell’evasione verso un mondo alto e di pura ragione o di pura poesia, con un potere mai perduto di vedere le cose come in una gioventù eterna della natura. Difatti, quando si sentì improvvisamente vecchio, negli ultimi mesi della sua vita, mi dicono che si nascondesse anche ai suoi superstiti amici dell’infanzia.
come mio padre aveva fatto con le sue, ad affrontare la mia lotta come egli affrontò la sua, a considerare gli uomini come egli li considerava, a essere ugualmente meticoloso e ostinato, a essere felice di tenere in serbo una piccola cosa
necessaria con l’amore stesso e la stessa fedeltà verso la natura e la Provvidenza. E un giorno mi sono trovato a scoprire che la gelosia d’ogni mia cosa pure innocente, il riserbo, non volerne confidare la più piccola parte a nessuno, mentre mi era parsa una difesa contro di lui, la fragile barriera contro cui egli si spazientiva poiché io difendevo i miei più piccoli sentimenti come si difende dalla luce una pianta mentre è in germoglio, dico che questo riserbo era il suo stesso riserbo, poiché egli si nascondeva, era geloso delle piccole cose che non si possono confidare altrui, e che sono l’ultimo residuo dell’eterna infanzia umana; eterna fino alla morte. A un certo punto ritrovarsi lo stesso viso, rinvenire le stesse passioni, e nei rari momenti in cui riusciamo ad ascoltarla, risentire nella nostra voce la sua, del padre. Tanto lavoro per sciuparsi ed essere diversi, e poi ritrovarsi come la pianta che ha in sé, come dice Campanella, la legge del suo frutto.
A volte mi sorprendo negli stessi atteggiamenti morali. Mio padre era curioso degli altri, dell’intelligenza, della cultura. La chiesa, nei piccoli paesi, è insieme il tempio, il ritrovo, il teatro, il tramite della cultura. Per essa entra negli uomini l’idea del mondo più alto, e nei ragazzi che hanno una natura ardente e fantastica il pensiero delle grandi vocazionl. Coi suoi santi guerrieri, o contemplatori, o dotti, o poeti, entra nell’animo dei ragazzi l’idea dell’eroismo, della contemplazione, della poesia. Mio padre era in prima fila quando c’era una predica. Un predicatore di paese porta con sé non soltanto l’edificazione, ma l’eco delle idee che agitano il mondo, la cultura, la poesia; ha una sua retorica e un suo compito che tocca anche l’oratoria profana. Ricordo che quando arrivava uno di questi personaggi (da noi un proverbio dice: ((Chi vien da lungi sa belle canzoni») mio padre non si dava pace fino a quando non lo avesse incontrato e non gli avesse parlato. 
Gli piacevano le discussioni e sentir discutere. I pensieri disinteressati lo affascinavano, e le teorie, le fantasticherie, col loro seguito di bizantinismo che è proprio dei calabresi, e il talento, anche negli umili, di filosofare. Rimaneva incantato e rapito. La sua più grande gioia fu quando mi vide adulto e capace di ragionare. Se aveva un’attitudine, era proprio questa dell’evasione verso un mondo alto e di pura ragione o di pura poesia, con un potere mai perduto di vedere le cose come in una gioventù eterna della natura. Difatti, quando si sentì improvvisamente vecchio, negli ultimi mesi della sua vita, mi dicono che si nascondesse anche ai suoi superstiti amici dell’infanzia.

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