Rumore di niente
da Canzoni d’amore (1992)
L'avevi creduto davvero
che avremmo parlato esperanto?
L'avevi creduto davvero
o l'avevi sperato soltanto?
5 Ma che tempo
e che elettricità!
Ma che tempo che è
e che tempo che sarà?
Ma che tempo farà?
10 Non lo senti
che tuona?
Non lo senti che tuona già?
Non lo senti che suona?
È lontana, però sembra già più
vicina
questa musica che abbiamo sentito
già.
15 Babbo, c'è un
assassino:
non lo fare bussare.
Babbo, c'è un indovino:
non lo fare parlare.
Babbo, c'è un imbianchino
20 vestito di
nuovo.
C'è la pelle di un vecchio
serpente
appena uscita da un uovo
e c'è un forte rumore di niente,
un forte rumore di niente.
25 L'avevi
creduto davvero
che avremmo parlato d'amore?
L'avevi creduto davvero
o l'avevi soltanto sperato col
cuore?
Gli occhi oggi gridano agli occhi
30 e le bocche
stanno a guardare
e le orecchie non vedono niente,
tra Babele e il villaggio
globale.
Babbo, c'è un assassino:
non lo fare bussare.
35 Babbo, c'è un
indovino:
non lo fare parlare.
Babbo, c'è un imbianchino
vestito di nuovo.
C'è la pelle di un vecchio
serpente
40 appena uscita
da un uovo
e c'è un forte rumore di niente,
c’è un forte rumore di niente.
Il pericolo della perdita della memoria storica: questo
l’argomento di Rumore di niente, che
cerca l’aiuto di chi è stato testimone delle tragedie di ieri (“babbo”) per rialimentare la coscienza
storica dell’oggi.
Una vena di amara disillusione percorre l’intero brano a
partire dall’inizio, per finire in un pessimismo apocalittico (per opera della
musica). Infranti tutti i sogni e le utopie, per cui noi tutti “avremmo parlato d’amore” nella lingua
unica e perfetta dell’esperanto[1],
tornano i vecchi fantasmi che tanti orrori hanno portato in Europa, come Hitler
(“un imbianchino”) e il nazismo (il “vecchio serpente”).
L’io lirico si rivolge ad un tu ignoto, che ci può fare
immaginare diversi interlocutori: potrebbe essere il figlio che si rivolge al
padre o un dialogo fra padre (vv.1-14 e 25-32) e figlio (vv.15-24 e 33-42). Più
probabilmente, si tratta di un dialogo interiore di De Gregori stesso, un
dialogo fra due entità che convivono in maniera instabile: la speranza forse
irrealizzabile di un futuro migliore e la minaccia più concreta di un disastro.
Già i primi quattro versi partono dalla constatazione di una
sconfitta irreversibile: l’anafora[2] dell’
“avevi creduto davvero” non dà via di
scampo, non dà possibilità di riscatto. Non c’è neanche tempo per prendere atto
di questa perdita, siamo troppo occupati a pensare a “questo tempo che è”, alla tecnologia che avanza con tutta questa “elettricità”. Questo concetto viene
definito ancora meglio dopo il ritornello nei versi 29-32: una serie di
sinestesie[3] che
rappresentano lo sfasamento dei sensi, lo smarrimento della ragione, che con il
suo strapotere è perduta “tra Babele e il
villaggio globale”. L’ultima grande utopia degli uomini è quella del Global
Village, dove la comunicazione la fa da padrone (ma non abbiamo nemmeno
l’esperanto per comunicare). In realtà, non siamo riusciti ad arrivarci, perché
siamo ancora a metà distanza fra quello e Babele con la sua torre, ancora
intenzionati a competere con dio. E, come nella leggenda originaria, in cui dio
punì gli uomini facendogli parlare lingue diverse affinché non si capissero,
continuiamo a vivere nello scompiglio: i cinque sensi si confondono, “gli occhi oggi gridano agli occhi / e le
bocche stanno a guardare / e le orecchie non vedono niente”.
In mezzo all’umanità immersa nella sua competizione con dio
e troppo poco interessata alla memoria del passato, ritornano a galla le
vecchie malattie dell’Europa. Persino il “vecchio
serpente” del nazismo può tornare fresco “appena uscito da un uovo”, persino Hitler l’“imbianchino” può tornare “vestito
di nuovo”. Ci sono tanti segnali, fino al tempo “che suona” ma nessuno lo sente (“non lo senti che tuona già?”). Forse c’è una via di salvezza, il
bambino lo capisce: a chi può rivolgersi? Solo alla memoria storica, al “babbo”, che ha visto il serpente e
l’imbianchino originali. L’esortazione di De Gregori è chiara: il padre, cioè
tutti coloro che hanno vissuto l’ieri, deve ripercorrere il passato, ricordarlo
incessantemente al figlio, raccontare tutto delle guerre, dei campi di
concentramento, di ogni genere di orrore. “E chi oggi non ha ancora vent’anni?
Cosa sa (cosa gli è stato insegnato) di quella guerra e di quei campi? (…) Solo
riconoscendo alla storia la sua natura di materiale incandescente e scandaloso
e solo rendendoci disponibili ancora una volta dopo cinquecento o dopo
cinquanta anni a farci scandalizzare nuovamente potremo dire di essere dei nani
sulle spalle di giganti, di aver fatto un buon uso del nostro passato senza
averlo consumato inutilmente e senza essere «condannati a ripeterlo». E chi
oggi non ha ancora vent’anni, allora? È possibile che percepisca la sciagura
nazista conclusasi trent’anni prima della sua venuta al mondo come semplice
tassello del suo percorso scolastico (la stele di Rosetta, la porpora, l’impero
romano, Napoleone, Hitler)? O come fiction («Indiana Jones» come «The
Schindler’s List»)? Che possa arrivare, addirittura, a negarne l’esistenza? Il
pericolo c’è, ed è sotto gli occhi di tutti. Ed è tanto più grave nel mondo di
oggi dove (senza nulla togliere alla specificità del dramma ebraico) la
coscienza viva dell’Olocausto varrebbe forse a capire meglio, a prevenire i
massacri che ci circondano, le nuove intolleranze, i nuovi razzismi, i nuovi
genocidi”[4].
La canzone, perciò, pur avendo uno specifico riferimento al
nazismo, vuole essere universale ed attuale. Il bambino vede che sono nati
nuovi Hitler e nuovi nazismi, che sono proprio quei “nuovi razzismi” e “nuovi
genocidi” di cui si diceva, che possono essere il massacro dei curdi, i
fascismi sudamericani, le stragi statunitensi etc. Il brano prende atto della
sconfitta delle vecchie utopie e del pericolo che grava sul presente: non
risolve né fa previsioni sul futuro, è un punto di domanda, un allarme ripetuto
in maniera seria e grave. Non c’è un punto d’arrivo: la richiesta disperata di
aiuto da parte del bambino soffoca nell’indifferenza, nell’incoscienza del
pericolo. Nessuno riesce nemmeno a sentire quell’allarme e l’unica cosa che
sente il bambino è “un forte rumore di
niente”. “La conclusione è l’inesprimibile, l’impossibilità di parlare dei
sentimenti, dell’amore, quando i sensi non rispondono più”[5].
[1] l’esperanto è una lingua
ausiliaria internazionale (lingua artificiale creata per la comunicazione tra
persone di differenti nazioni) sviluppata tra il 1872 e il 1887 dal medico
oculista Ludwik Lejzer Zamenhof a Varsavia.
[2] anafora: ripetizione della
stessa parola (o di più parole) all'inizio di versi o di frasi consecutive.
[3] sinestesia: consiste
nell'associare, all'interno di un'unica immagine, sostantivi e aggettivi
appartenenti a sfere sensoriali diverse.
[4] dall’intervento di
Francesco De Gregori sul sito internet dell’ANED, Associazione Nazionale Ex
Deportati politici nei campi nazisti, www.deportati.it, aprile 1994.
[5] da “Francesco De Gregori.
1972-2004: Dell’amore e di altre canzoni” di Giommaria Monti, Editori Riuniti,
2004.
Tutto perfetto, manca solo la citazione dei gulag, atroci almeno quanto i lager. Bravo!
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