giovedì 13 agosto 2015

F. De Gregori - Rumore di niente di Antonio Piccolo


Rumore di niente
da Canzoni d’amore (1992)

L'avevi creduto davvero
che avremmo parlato esperanto?
L'avevi creduto davvero
o l'avevi sperato soltanto?

5          Ma che tempo
e che elettricità!
Ma che tempo che è
e che tempo che sarà?
Ma che tempo farà?
10        Non lo senti che tuona?
Non lo senti che tuona già?
Non lo senti che suona?

È lontana, però sembra già più vicina
questa musica che abbiamo sentito già.

15        Babbo, c'è un assassino:
non lo fare bussare.
Babbo, c'è un indovino:
non lo fare parlare.
Babbo, c'è un imbianchino
20        vestito di nuovo.
C'è la pelle di un vecchio serpente
appena uscita da un uovo
e c'è un forte rumore di niente,
un forte rumore di niente.

25        L'avevi creduto davvero
che avremmo parlato d'amore?
L'avevi creduto davvero
o l'avevi soltanto sperato col cuore?

Gli occhi oggi gridano agli occhi
30        e le bocche stanno a guardare
e le orecchie non vedono niente,
tra Babele e il villaggio globale.

Babbo, c'è un assassino:
non lo fare bussare.
35        Babbo, c'è un indovino:
non lo fare parlare.
Babbo, c'è un imbianchino
vestito di nuovo.
C'è la pelle di un vecchio serpente
40        appena uscita da un uovo
e c'è un forte rumore di niente,
c’è un forte rumore di niente.

Il pericolo della perdita della memoria storica: questo l’argomento di Rumore di niente, che cerca l’aiuto di chi è stato testimone delle tragedie di ieri (“babbo”) per rialimentare la coscienza storica dell’oggi.

Una vena di amara disillusione percorre l’intero brano a partire dall’inizio, per finire in un pessimismo apocalittico (per opera della musica). Infranti tutti i sogni e le utopie, per cui noi tutti “avremmo parlato d’amore” nella lingua unica e perfetta dell’esperanto[1], tornano i vecchi fantasmi che tanti orrori hanno portato in Europa, come Hitler (“un imbianchino”) e il nazismo (il “vecchio serpente”).

L’io lirico si rivolge ad un tu ignoto, che ci può fare immaginare diversi interlocutori: potrebbe essere il figlio che si rivolge al padre o un dialogo fra padre (vv.1-14 e 25-32) e figlio (vv.15-24 e 33-42). Più probabilmente, si tratta di un dialogo interiore di De Gregori stesso, un dialogo fra due entità che convivono in maniera instabile: la speranza forse irrealizzabile di un futuro migliore e la minaccia più concreta di un disastro.

Già i primi quattro versi partono dalla constatazione di una sconfitta irreversibile: l’anafora[2] dell’ “avevi creduto davvero” non dà via di scampo, non dà possibilità di riscatto. Non c’è neanche tempo per prendere atto di questa perdita, siamo troppo occupati a pensare a “questo tempo che è”, alla tecnologia che avanza con tutta questa “elettricità”. Questo concetto viene definito ancora meglio dopo il ritornello nei versi 29-32: una serie di sinestesie[3] che rappresentano lo sfasamento dei sensi, lo smarrimento della ragione, che con il suo strapotere è perduta “tra Babele e il villaggio globale”. L’ultima grande utopia degli uomini è quella del Global Village, dove la comunicazione la fa da padrone (ma non abbiamo nemmeno l’esperanto per comunicare). In realtà, non siamo riusciti ad arrivarci, perché siamo ancora a metà distanza fra quello e Babele con la sua torre, ancora intenzionati a competere con dio. E, come nella leggenda originaria, in cui dio punì gli uomini facendogli parlare lingue diverse affinché non si capissero, continuiamo a vivere nello scompiglio: i cinque sensi si confondono, “gli occhi oggi gridano agli occhi / e le bocche stanno a guardare / e le orecchie non vedono niente”.

In mezzo all’umanità immersa nella sua competizione con dio e troppo poco interessata alla memoria del passato, ritornano a galla le vecchie malattie dell’Europa. Persino il “vecchio serpente” del nazismo può tornare fresco “appena uscito da un uovo”, persino Hitler l’“imbianchino” può tornare “vestito di nuovo”. Ci sono tanti segnali, fino al tempo “che suona” ma nessuno lo sente (“non lo senti che tuona già?”). Forse c’è una via di salvezza, il bambino lo capisce: a chi può rivolgersi? Solo alla memoria storica, al “babbo”, che ha visto il serpente e l’imbianchino originali. L’esortazione di De Gregori è chiara: il padre, cioè tutti coloro che hanno vissuto l’ieri, deve ripercorrere il passato, ricordarlo incessantemente al figlio, raccontare tutto delle guerre, dei campi di concentramento, di ogni genere di orrore. “E chi oggi non ha ancora vent’anni? Cosa sa (cosa gli è stato insegnato) di quella guerra e di quei campi? (…) Solo riconoscendo alla storia la sua natura di materiale incandescente e scandaloso e solo rendendoci disponibili ancora una volta dopo cinquecento o dopo cinquanta anni a farci scandalizzare nuovamente potremo dire di essere dei nani sulle spalle di giganti, di aver fatto un buon uso del nostro passato senza averlo consumato inutilmente e senza essere «condannati a ripeterlo». E chi oggi non ha ancora vent’anni, allora? È possibile che percepisca la sciagura nazista conclusasi trent’anni prima della sua venuta al mondo come semplice tassello del suo percorso scolastico (la stele di Rosetta, la porpora, l’impero romano, Napoleone, Hitler)? O come fiction («Indiana Jones» come «The Schindler’s List»)? Che possa arrivare, addirittura, a negarne l’esistenza? Il pericolo c’è, ed è sotto gli occhi di tutti. Ed è tanto più grave nel mondo di oggi dove (senza nulla togliere alla specificità del dramma ebraico) la coscienza viva dell’Olocausto varrebbe forse a capire meglio, a prevenire i massacri che ci circondano, le nuove intolleranze, i nuovi razzismi, i nuovi genocidi”[4].

La canzone, perciò, pur avendo uno specifico riferimento al nazismo, vuole essere universale ed attuale. Il bambino vede che sono nati nuovi Hitler e nuovi nazismi, che sono proprio quei “nuovi razzismi” e “nuovi genocidi” di cui si diceva, che possono essere il massacro dei curdi, i fascismi sudamericani, le stragi statunitensi etc. Il brano prende atto della sconfitta delle vecchie utopie e del pericolo che grava sul presente: non risolve né fa previsioni sul futuro, è un punto di domanda, un allarme ripetuto in maniera seria e grave. Non c’è un punto d’arrivo: la richiesta disperata di aiuto da parte del bambino soffoca nell’indifferenza, nell’incoscienza del pericolo. Nessuno riesce nemmeno a sentire quell’allarme e l’unica cosa che sente il bambino è “un forte rumore di niente”. “La conclusione è l’inesprimibile, l’impossibilità di parlare dei sentimenti, dell’amore, quando i sensi non rispondono più”[5].
Questo è quello che ci dice il testo. Ma la canzone si conclude con una lunga ed incalzante coda musicale: Lili Marlen, vecchio successo di Marlene Dietricht che faceva da colonna sonora alle marce dell’esercito nazista. La citazione di quella bellissima canzone, romantica e struggente, che porta col pensiero ai Lager provoca non solo un formidabile effetto dissacrante, ma anche l’inquietudine e l’angoscia di un messaggio evidentemente suggerito da De Gregori: il “vecchio serpente / appena uscito da un uovo” ha cominciato a strisciare e va dritto per la sua strada. Come preannunciato, quella che all’inizio era un’amara disillusione si è mutata in un pessimismo apocalittico.




[1] l’esperanto è una lingua ausiliaria internazionale (lingua artificiale creata per la comunicazione tra persone di differenti nazioni) sviluppata tra il 1872 e il 1887 dal medico oculista Ludwik Lejzer Zamenhof a Varsavia.
[2] anafora: ripetizione della stessa parola (o di più parole) all'inizio di versi o di frasi consecutive.
[3] sinestesia: consiste nell'associare, all'interno di un'unica immagine, sostantivi e aggettivi appartenenti a sfere sensoriali diverse.
[4] dall’intervento di Francesco De Gregori sul sito internet dell’ANED, Associazione Nazionale Ex Deportati politici nei campi nazisti, www.deportati.it, aprile 1994.
[5] da “Francesco De Gregori. 1972-2004: Dell’amore e di altre canzoni” di Giommaria Monti, Editori Riuniti, 2004.

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