Antonio Piccolo
Il cuoco di Salò
Liceo Ginnasio Classico Statale
ANTONIO GENOVESI
Napoli
Il cuoco di Salò
da Amore nel pomeriggio (2001)
Alla sera vedo donne bellissime
da Venezia arrivare fin qua.
E salire le scale e frusciare
come mazzi di rose.
5 Il profumo
rimane nell'aria,
quando la porta si chiude,
ed allora le immagino nude ad aspettare.
Sono attrici scappate da Roma
o cantanti non ancora famose,
10 che si
fermano per una notte,
per una stagione.
Al mattino non hanno pudore,
quando scendono per colazione,
puoi sentirle cantare.
15 Se
quest'acqua di lago fosse acqua di mare,
quanti pesci potrei cucinare
stasera.
Anche un cuoco può essere utile
in una bufera,
anche in mezzo a un naufragio si
deve mangiare.
Che qui si fa l'Italia e si
muore.
20 dalla parte
sbagliata.
In una grande giornata si muore,
in una bella giornata di sole,
dalla parte sbagliata si muore.
E alla sera da dietro a quei
monti
25 si sentono
colpi non troppo lontani.
C'è chi dice che sono banditi
e chi dice americani.
Io mi chiedo che faccia faranno
a trovarmi in cucina
30 e se vorranno
qualcosa per cena.
Se quest'acqua di lago potesse
ascoltare,
quante storie potrei raccontare
stasera:
quindicenni sbranati dalla
primavera,
scarpe rotte, che pure gli tocca
di andare.
35 Che qui si fa
l'Italia e si muore,
dalla parte sbagliata.
In una grande giornata si muore,
in una bella giornata di sole,
dalla parte sbagliata si muore.
40 In una grande
giornata si muore,
dalla parte sbagliata,
in una bella giornata di sole,
qui si fa l'Italia e si muore.
Il brano in questione, più di altri, andrebbe considerato
nella sua convergenza di testo-melodia-armonia-arrangiamento-interpretazione.
Grande merito va attribuito a Franco Battiato che, con il suo arrangiamento,
riesce a portare ai massimi livelli il grado di disincanto e lontananza che è
parte effettiva e necessaria del significante di questa canzone.
Ma la grande storia fa l’ingresso nella canzone, sempre
dall’ottica del cuoco. Egli non distingue il dato storico, non fa differenza
fra i combattenti, vede come dato unificatore la morte. Ma non è una morte
qualunque: è una morte cercata, eroica in senso epico, anche quella dei
combattenti di Salò. A sottolinearlo sono le trombe che si sentono in
lontananza, ma anche la frase che si pronuncia: “che qui si fa l’Italia e si muore”, citazione di Giuseppe
Garibaldi, cambiata quel poco (cambio della congiunzione da “o” ad “e”)
necessario per cambiare totalmente di senso. È un dato di fatto: questa è
l’Italia, ma ci si ammazza fra italiani, da qualunque parte si stia, e ognuna
delle due parti ritiene di stare facendo il bene del paese (il grido “Viva l’Italia!”
appartiene sia alla cultura fascista che a quella antifascista). La sentenza
storica c’è, però: i repubblichini muoiono “dalla
parte sbagliata”. Non si tratta di una sentenza del cuoco, incosciente e
ingenuamente disinformato, e nemmeno di De Gregori: “Sono loro stessi che in
questo canto dicono di stare dalla parte sbagliata. Credo che questo fosse un
sentimento abbastanza diffuso, forse in maniera più o meno conscia fra coloro
che avevano scelto di militare nella Repubblica Sociale. Sicuramente sapevano
di andare incontro ad una sconfitta storica, non solo ad una sconfitta
militare”[2]. La
canzone esprime una sorta di umana ed universale pietà per tutte le persone
comuni che vengono trascinate e coinvolte in affari più grandi di loro, anche
per i nemici che, con tutta la loro buona volontà e buona fede, lottano per il
proprio ideale, anche se inequivocabilmente sbagliato. La tragedia è ancora
maggiore perché si tratta di italiani contro italiani, sebbene la storiografia
non abbia mai tollerato fino in fondo la visione di quel periodo come “guerra
civile”. “Questa esigenza collimava con la propensione largamente diffusa a
occultare il dato elementare che «anche i fascisti, nonostante tutto, erano
italiani». «Italiani» non rinvia soltanto a un dato etnico. Entrambe le parti
intendevano integrare «il paradigma dello Stato moderno come sovrana unità
politica», poiché entrambe si sentivano rappresentanti dell’Italia intera”[3]. Lo
dice lo stesso De Gregori: “Ecco, ora però il discorso sulla guerra civile o
guerra di liberazione è sempre stato visto male dalla sinistra fino a una
decina d’anni fa. Poi c’è stato il libro molto importante, che sicuramente
alcuni di voi avranno letto, di Claudio Pavone, dove si dice una volta per
tutte, e credo che questo oggi nessuno lo possa contestare, che anche quelli
che combattevano dalla parte dei fascisti, anche i repubblichini, anche quelli
alleati con i tedeschi, erano comunque italiani. Quindi probabilmente avevano
delle motivazioni forti, patriottiche, per compiere quella scelta. Questo
chiaramente non vuol dire giustificarli. Non è la canzone la sede per
giustificare”[4].
Tuttavia, tra la morte e l’Italia divisa, il cuoco continua
a pensare alla propria vita quotidiana, alla “bella giornata di sole” che è uscita. La sua stessa innocenza e la
luce del sole sono la contrapposizione all’odio e la morte che regna di fuori,
per colpa dei fascisti (anche se lui non lo sa). “Alla sera” sente degli spari vicini, così come “alla sera” vede donne bellissime, ma
non è che capisce gran che: non sa se sono americani o partigiani, che lui non
sa nemmeno chi sono, tant’è vero che li chiama “banditi” o, più probabilmente, così li chiamano i repubblichini
che lo circondano. Addirittura, da uomo comune, anche con un’ingente dose di
irresponsabilità, mostra un certo umorismo: si chiede, nel caso dovessero
abbattere la Repubblica
di Salò, “che faccia faranno” gli
sconosciuti nemici a trovarlo in cucina “e
se vorranno qualcosa per cena”. È anche il modo di De Gregori di porre la
questione del dopo-liberazione: quale avvenire per i fascisti, per quelli
rimasti fedeli fino all’ultimo a quell’ideologia ripugnante? Una questione
storica necessaria da affrontare per ricostruire il paese: oltre alla scontata
condanna, bisogna scegliere fra la punizione e la riconciliazione.
L’astrazione del cuoco non è totale, perché con tutta questa
gente che muore, qualcosa ha da raccontare: “quindicenni
sbranati dalla primavera” (la Repubblica
Sociale finì il 28 aprile 1945) e “scarpe rotte che pure gli tocca di andare”[5]. È una
contrapposizione desolante, fra i ragazzini incoscienti arruolati nella
Repubblica fascista e “sbranati”
dalle promesse effimere di quella e i partigiani che lottano per la
ricostruzione di un paese distrutto (De Gregori usa un espediente a cui ricorre
spesso: un’inaspettata citazione di un canto della Resistenza come Fischia il vento). Una desolazione la
cui tragicità viene sottolineata con due espedienti: la violenza di un’immagine
come quella di ragazzini quindicenni sbranati e la sineddoche[6] delle
“scarpe rotte”, strumento povero
destinato a non durare molto, proprio come chi le calza. “Ma attenzione, non è
pietà vera e propria, bensì una sorta di fatalismo, di impotenza, di «cosa ci
posso fare io» di fronte a cose così imponenti”[7].
E il finale, significativamente reiterato ed esaltato,
riporta all’immensità di questa tragedia collettiva, dove il minimo comune
multiplo tra chi sta dalla parte giusta e chi sta - senza alcun dubbio - “dalla parte sbagliata” è la morte, lo sfacelo, la rovina. Ma, sia
ben chiaro, “Il cuoco di Salò non è
una giustificazione né totale né minima al fascismo e ai suoi disastri. Non è e
non vuol essere un accumunare morti di un tipo ad altri morti in una specifica
contingenza storica. È semplicemente un grido muto, da espressionismo tedesco,
un grido lacerante e silenzioso sull’inutilità, sull’occasione perduta,
sull’insensatezza di un periodo evitabilissimo e non evitato, sull’esaltazione
pilotata, ingannevole e incolpevole di alcuni, di molti giovani”[8].
Figure retoriche
“se quest’acqua di
lago fosse acqua di mare / quanti pesci potrei cucinare stasera” è
un’adynaton.
“alla sera” (v.1)
e “e alla sera” (v.24) fanno
un’anafora, così come “anche un cuoco”
(v.17) e “anche in mezzo a un naufragio”
(v.18), “in una grande giornata si muore”
e “dalla parte sbagliata”.
“da Venezia arrivare
fin qua” e “dalla parte sbagliata si
muore” sono due anastrofi.
“puoi sentirle
cantare” è un’apostrofe.
C’è un chiasmo:
un
cuoco può essere utile in una bufera
in mezzo a un naufragio si
deve mangiare
La ripetizione di “si
muore” costituisce un’epifora.
“non troppo lontani”
è una litote.
“se quest’acqua di
lago potesse ascoltare” e “quindicenni
sbranati dalla primavera” sono due metafore allegoriche.
“scarpe rotte che pure
gli tocca di andare” è una sineddoche.
“come mazzi di rose” è una similitudine.
L’andamento metrico è tra le cose più interessanti del
brano, poiché conferisce un ritmo insito al testo. Ci sono molte rime con
andamento irregolare: frusciare-aspettare-cantare-mare-mangiare-ascoltare-andare,
stagione-colazione (assonanza con “pudore”), stasera-bufera-primavera, lontani-americani.
Ancora più interessanti le rime interne come chiude-nude, sbagliata-giornata,
assonanze come scale-frusciare, monti-colpi, e la consonanza cucina-cena.
[1] da “Il linguaggio in
canzone e la rivoluzione lessicale, formale e tematica di Francesco De
Gregori”, dispensa scritta dal docente Roberto Vecchioni, Università degli
Studi di Torino-DAMS, corso di “Forme della poesia per musica”, anno accademico
2002-2003.
[2] dall’intervento di
Francesco De Gregori nel Convegno “Comunicare storia. Un seminario a più voci”,
tenutosi ad Arezzo il 22 e il 23 febbraio 2001 e organizzato dall’Assessorato
ai Beni e Attività culturali della Provincia di Arezzo e dalla rivista “Storia
e problemi contemporanei”.
[3] da “Una guerra civile.
Saggio storico sulla moralità nella Resistenza” di Claudio Pavone, Boringhieri,
1991.
[4] dall’intervento di
Francesco De Gregori nel Convegno “Comunicare storia. Un seminario a più voci”,
tenutosi ad Arezzo il 22 e il 23 febbraio 2001 e organizzato dall’Assessorato
ai Beni e Attività culturali della Provincia di Arezzo e dalla rivista “Storia
e problemi contemporanei”.
[5] citazione da Fischia il vento (“scarpe rotte, eppur
ci tocca andar”), tradizionale della Resistenza
[6] sineddoche: si verifica
quando un termine è usato per significarne un altro più ampio e più specifico.
[7] da “Il linguaggio in
canzone e la rivoluzione lessicale, formale e tematica di Francesco De
Gregori”, dispensa scritta dal docente Roberto Vecchioni, Università degli
Studi di Torino-DAMS, corso di “Forme della poesia per musica”, anno accademico
2002-2003.
[8] da “Il linguaggio in
canzone e la rivoluzione lessicale, formale e tematica di Francesco De
Gregori”, dispensa scritta dal docente Roberto Vecchioni, Università degli
Studi di Torino-DAMS, corso di “Forme della poesia per musica”, anno accademico
2002-2003.
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