(Manlio Rossi Doria primo da sx )
da: Manlio Rossi Doria a Guido Dorso, 20 novembre 1944, in Manlio
Rossi-Doria, Una vita per il Sud, Donzelli, 2012, pp. 5-8.
Che cosa aspettiamo?
Roma, 20 novembre 1944
Caro Guido,
ti scrivo con uno scopo preciso, ma credo che continuerò a scrivere contento
d’aver finalmente afferrato il pretesto per parlare con te di tante cose che mi
girano in testa. Lo scopo preciso è questo: De Filippis da Bari mi telefona
perché io insista con te per indurti a venire a Bari al Convegno del 3-4
dicembre, dove giustamente ritengo la tua presenza e la tua relazione
indispensabili. Lo faccio tanto più volentieri, in quanto, essendo anch’io
relatore, non potrei fare a meno del tuo giudizio e di lunghe conversazioni con
te. Spero quindi di avere conferma. Spero anche che al Convegno intervenga Ugo
e altri amici di qui. Cosa sarà il Convegno esattamente non so: so soltanto che
sarà un nostro nuovo incontro e un altro tentativo di dar precisione a idee
nuove e necessarie (…)
Qualche volta ho l’impressione che nessuno lavori, che tutti aspettino per
lavorare: chi dovrebbe costruire aspetta per costruire, chi dovrebbe far
politica aspetta a farla, chi dovrebbe governare aspetta per governare. Ho
l’impressione che a lavorare veramente, oggi, in questa Italia liberata non ci
siano che la gente del mercato nero, le puttane e i contadini, oltre ai preti e
la gente che ha da salvare le sue vecchie posizioni guadagnate negli anni
andati. Questo, naturalmente, se per lavorare si intende quel che di solito si
intende, cioè il fare una determinata cosa con un determinato scopo e con mezzi
adeguati allo scopo. Gli altri, ripeto, aspettano sia poi questa aspettativa
agitata e rumorosa o quasi inerte e tranquilla.
Aspettano: Aspettiamo che? A questa domanda non so trovare una risposta:
aspettiamo d’aver toccato il fondo, il fondo che - è chiaro – non abbiamo
toccato e senza del quale il fare non avrebbe senso.
Questa risposta – non so
come spiegarti -. Mi fa apparire quello strano attendere come qualcosa di sano,
come una garanzia. Nello stesso tempo, però, mi lascia una gran paura in corpo:
la paura, non tanto di scendere più in basso di quanto è necessario (perché il
fondo, mi sembra, non può esser che uno) , quanto di restare, una volta toccato
il fondo, altrettanto incerti quanto oggi e per di più impediti nei nostri
movimenti da tutti gli intralci e le impalcature che gli agitati e la gente
interessata a salvare il proprio avranno nel frattempo costruito.
In questo dilemma e nella considerazione di tutto il tragico che esso
comporta ci sarebbe da disperarsi, perché non si riuscirebbe a vedere per quali
vie forze sane di rinnovamento, di rivoluzione potrebbero farsi strada. Il
conforto sta solo nel pensare che una rivoluzione è in atto in quegli stessi
processi oscuri che la catastrofe economica e monetaria sta provocando: c’è un
profondo rinnovamento di classi sociali che racchiude tutta la possibilità di
una rivoluzione . Una rivoluzione che non è facile intendere e incanalare, che
non è facile saldare con quell’altra più alta rivoluzione che i nostri amici
che son morti e muoiono combattendo personificano.
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