lunedì 2 giugno 2014

IL CUOCO DI SALO' - Antonio Piccolo



Antonio Piccolo



Liceo Ginnasio Classico Statale
ANTONIO GENOVESI

Napoli
 


Il cuoco di Salò

da Amore nel pomeriggio (2001)

 

Alla sera vedo donne bellissime

da Venezia arrivare fin qua.

E salire le scale e frusciare

come mazzi di rose.

5          Il profumo rimane nell'aria,

quando la porta si chiude,

ed allora le immagino nude ad aspettare.

 

Sono attrici scappate da Roma

o cantanti non ancora famose,

10        che si fermano per una notte,

per una stagione.

Al mattino non hanno pudore,

quando scendono per colazione,

puoi sentirle cantare.

 

15        Se quest'acqua di lago fosse acqua di mare,

quanti pesci potrei cucinare stasera.

Anche un cuoco può essere utile in una bufera,

anche in mezzo a un naufragio si deve mangiare.

 

Che qui si fa l'Italia e si muore.

20        dalla parte sbagliata.

In una grande giornata si muore,

in una bella giornata di sole,

dalla parte sbagliata si muore.

 

E alla sera da dietro a quei monti

25        si sentono colpi non troppo lontani.

C'è chi dice che sono banditi

e chi dice americani.

Io mi chiedo che faccia faranno

a trovarmi in cucina

30        e se vorranno qualcosa per cena.

 

Se quest'acqua di lago potesse ascoltare,

quante storie potrei raccontare stasera:

quindicenni sbranati dalla primavera,

scarpe rotte, che pure gli tocca di andare.

 

35        Che qui si fa l'Italia e si muore,

dalla parte sbagliata.

In una grande giornata si muore,

in una bella giornata di sole,

dalla parte sbagliata si muore.

 

40        In una grande giornata si muore,

dalla parte sbagliata,

in una bella giornata di sole,

qui si fa l'Italia e si muore.

 

Il brano in questione, più di altri, andrebbe considerato nella sua convergenza di testo-melodia-armonia-arrangiamento-interpretazione. Grande merito va attribuito a Franco Battiato che, con il suo arrangiamento, riesce a portare ai massimi livelli il grado di disincanto e lontananza che è parte effettiva e necessaria del significante di questa canzone.

 Una canzone il cui protagonista - che parla in prima persona -, coinvolto nella grande storia, è un personaggio minore, angolare, quotidiano: un cuoco della Repubblica Sociale di Salò, nei suoi ultimi giorni. Attraverso questo espediente letterario, con cui può esimersi dall’esprimere un giudizio storico, De Gregori riesce in un’impresa titanica: da un lato, riesce a raccontare la vicenda italiana dei giovani repubblichini e di quella sorta di “guerra civile” italiana fra il settembre del ’43 e l’aprile del ’45; d’altro lato, riesce a raccontare la condizione universale di chi, nelle sue piccole scelte, si trova inconsapevolmente “dalla parte sbagliata”. Attenzione, “inconsapevolmente” non vuol dire senza colpa, ma solo senza (piena) consapevolezza. Il cuoco di Salò è una di quelle persone “grigie” di cui parla Renzo De Felice, che ha vissuto gli anni del fascismo senza nemmeno accorgersene.

 Inconscio di essere testimone della grande storia, il cuoco di Salò è preso, nella sua genuinità, dalle “donne bellissime” che gli girano intorno, cantando ed emanando un profumo che lo fa sognare, mentre lui è intento a preparare loro la colazione. Attrici e cantanti a cui lui non chiede ragione della loro presenza, ma piuttosto si concentra sul proprio ruolo: si rammarica di non poter preparare il pesce per la cena e ribadisce, più a se stesso che ad altri, tra la gente che magari combatte e perciò non ha tempo di badare a lui, la propria indispensabilità, poiché “anche in mezzo a un naufragio si deve mangiare”. “Il cuoco pensa a sé, alla sua vita, al suo lavoro: è lui nella sua piccola dimensione il centro: tutto il resto che è «la storia» fa da sfondo e risulta ai suoi occhi come occasionale incidente, ininfluente”[1].

 
Ma la grande storia fa l’ingresso nella canzone, sempre dall’ottica del cuoco. Egli non distingue il dato storico, non fa differenza fra i combattenti, vede come dato unificatore la morte. Ma non è una morte qualunque: è una morte cercata, eroica in senso epico, anche quella dei combattenti di Salò. A sottolinearlo sono le trombe che si sentono in lontananza, ma anche la frase che si pronuncia: “che qui si fa l’Italia e si muore”, citazione di Giuseppe Garibaldi, cambiata quel poco (cambio della congiunzione da “o” ad “e”) necessario per cambiare totalmente di senso. È un dato di fatto: questa è l’Italia, ma ci si ammazza fra italiani, da qualunque parte si stia, e ognuna delle due parti ritiene di stare facendo il bene del paese (il grido “Viva l’Italia!” appartiene sia alla cultura fascista che a quella antifascista). La sentenza storica c’è, però: i repubblichini muoiono “dalla parte sbagliata”. Non si tratta di una sentenza del cuoco, incosciente e ingenuamente disinformato, e nemmeno di De Gregori: “Sono loro stessi che in questo canto dicono di stare dalla parte sbagliata. Credo che questo fosse un sentimento abbastanza diffuso, forse in maniera più o meno conscia fra coloro che avevano scelto di militare nella Repubblica Sociale. Sicuramente sapevano di andare incontro ad una sconfitta storica, non solo ad una sconfitta militare”[2]. La canzone esprime una sorta di umana ed universale pietà per tutte le persone comuni che vengono trascinate e coinvolte in affari più grandi di loro, anche per i nemici che, con tutta la loro buona volontà e buona fede, lottano per il proprio ideale, anche se inequivocabilmente sbagliato. La tragedia è ancora maggiore perché si tratta di italiani contro italiani, sebbene la storiografia non abbia mai tollerato fino in fondo la visione di quel periodo come “guerra civile”. “Questa esigenza collimava con la propensione largamente diffusa a occultare il dato elementare che «anche i fascisti, nonostante tutto, erano italiani». «Italiani» non rinvia soltanto a un dato etnico. Entrambe le parti intendevano integrare «il paradigma dello Stato moderno come sovrana unità politica», poiché entrambe si sentivano rappresentanti dell’Italia intera”[3]. Lo dice lo stesso De Gregori: “Ecco, ora però il discorso sulla guerra civile o guerra di liberazione è sempre stato visto male dalla sinistra fino a una decina d’anni fa. Poi c’è stato il libro molto importante, che sicuramente alcuni di voi avranno letto, di Claudio Pavone, dove si dice una volta per tutte, e credo che questo oggi nessuno lo possa contestare, che anche quelli che combattevano dalla parte dei fascisti, anche i repubblichini, anche quelli alleati con i tedeschi, erano comunque italiani. Quindi probabilmente avevano delle motivazioni forti, patriottiche, per compiere quella scelta. Questo chiaramente non vuol dire giustificarli. Non è la canzone la sede per giustificare”[4].

ue

 
Tuttavia, tra la morte e l’Italia divisa, il cuoco continua a pensare alla propria vita quotidiana, alla “bella giornata di sole” che è uscita. La sua stessa innocenza e la luce del sole sono la contrapposizione all’odio e la morte che regna di fuori, per colpa dei fascisti (anche se lui non lo sa). “Alla sera” sente degli spari vicini, così come “alla sera” vede donne bellissime, ma non è che capisce gran che: non sa se sono americani o partigiani, che lui non sa nemmeno chi sono, tant’è vero che li chiama “banditi” o, più probabilmente, così li chiamano i repubblichini che lo circondano. Addirittura, da uomo comune, anche con un’ingente dose di irresponsabilità, mostra un certo umorismo: si chiede, nel caso dovessero abbattere la Repubblica di Salò, “che faccia faranno” gli sconosciuti nemici a trovarlo in cucina “e se vorranno qualcosa per cena”. È anche il modo di De Gregori di porre la questione del dopo-liberazione: quale avvenire per i fascisti, per quelli rimasti fedeli fino all’ultimo a quell’ideologia ripugnante? Una questione storica necessaria da affrontare per ricostruire il paese: oltre alla scontata condanna, bisogna scegliere fra la punizione e la riconciliazione.

 
L’astrazione del cuoco non è totale, perché con tutta questa gente che muore, qualcosa ha da raccontare: “quindicenni sbranati dalla primavera” (la Repubblica Sociale finì il 28 aprile 1945) e “scarpe rotte che pure gli tocca di andare”[5]. È una contrapposizione desolante, fra i ragazzini incoscienti arruolati nella Repubblica fascista e “sbranati” dalle promesse effimere di quella e i partigiani che lottano per la ricostruzione di un paese distrutto (De Gregori usa un espediente a cui ricorre spesso: un’inaspettata citazione di un canto della Resistenza come Fischia il vento). Una desolazione la cui tragicità viene sottolineata con due espedienti: la violenza di un’immagine come quella di ragazzini quindicenni sbranati e la sineddoche[6] delle “scarpe rotte”, strumento povero destinato a non durare molto, proprio come chi le calza. “Ma attenzione, non è pietà vera e propria, bensì una sorta di fatalismo, di impotenza, di «cosa ci posso fare io» di fronte a cose così imponenti”[7].

 

E il finale, significativamente reiterato ed esaltato, riporta all’immensità di questa tragedia collettiva, dove il minimo comune multiplo tra chi sta dalla parte giusta e chi sta - senza alcun dubbio - “dalla parte sbagliata”  è la morte, lo sfacelo, la rovina. Ma, sia ben chiaro, “Il cuoco di Salò non è una giustificazione né totale né minima al fascismo e ai suoi disastri. Non è e non vuol essere un accumunare morti di un tipo ad altri morti in una specifica contingenza storica. È semplicemente un grido muto, da espressionismo tedesco, un grido lacerante e silenzioso sull’inutilità, sull’occasione perduta, sull’insensatezza di un periodo evitabilissimo e non evitato, sull’esaltazione pilotata, ingannevole e incolpevole di alcuni, di molti giovani”[8].

 

 

Figure retoriche

“se quest’acqua di lago fosse acqua di mare / quanti pesci potrei cucinare stasera” è un’adynaton.

“alla sera” (v.1) e “e alla sera” (v.24) fanno un’anafora, così come “anche un cuoco” (v.17) e “anche in mezzo a un naufragio” (v.18), “in una grande giornata si muore” e “dalla parte sbagliata”.

“da Venezia arrivare fin qua” e “dalla parte sbagliata si muore” sono due anastrofi.

“puoi sentirle cantare” è un’apostrofe.

C’è un chiasmo:

un cuoco può essere utile       in una bufera

in mezzo a un naufragio         si deve mangiare

 

La ripetizione di “si muore” costituisce un’epifora.

“non troppo lontani” è una litote.

“se quest’acqua di lago potesse ascoltare” e “quindicenni sbranati dalla primavera” sono due metafore allegoriche.

“scarpe rotte che pure gli tocca di andare” è una sineddoche.

 “come mazzi di rose” è una similitudine.

 

L’andamento metrico è tra le cose più interessanti del brano, poiché conferisce un ritmo insito al testo. Ci sono molte rime con andamento irregolare: frusciare-aspettare-cantare-mare-mangiare-ascoltare-andare, stagione-colazione (assonanza con “pudore”), stasera-bufera-primavera, lontani-americani. Ancora più interessanti le rime interne come chiude-nude, sbagliata-giornata, assonanze come scale-frusciare, monti-colpi, e la consonanza cucina-cena.

 

 
[1] da “Il linguaggio in canzone e la rivoluzione lessicale, formale e tematica di Francesco De Gregori”, dispensa scritta dal docente Roberto Vecchioni, Università degli Studi di Torino-DAMS, corso di “Forme della poesia per musica”, anno accademico 2002-2003.
[2] dall’intervento di Francesco De Gregori nel Convegno “Comunicare storia. Un seminario a più voci”, tenutosi ad Arezzo il 22 e il 23 febbraio 2001 e organizzato dall’Assessorato ai Beni e Attività culturali della Provincia di Arezzo e dalla rivista “Storia e problemi contemporanei”.
[3] da “Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza” di Claudio Pavone, Boringhieri, 1991.
[4] dall’intervento di Francesco De Gregori nel Convegno “Comunicare storia. Un seminario a più voci”, tenutosi ad Arezzo il 22 e il 23 febbraio 2001 e organizzato dall’Assessorato ai Beni e Attività culturali della Provincia di Arezzo e dalla rivista “Storia e problemi contemporanei”.
[5] citazione da Fischia il vento (“scarpe rotte, eppur ci tocca andar”), tradizionale della Resistenza
[6] sineddoche: si verifica quando un termine è usato per significarne un altro più ampio e più specifico.
[7] da “Il linguaggio in canzone e la rivoluzione lessicale, formale e tematica di Francesco De Gregori”, dispensa scritta dal docente Roberto Vecchioni, Università degli Studi di Torino-DAMS, corso di “Forme della poesia per musica”, anno accademico 2002-2003.
[8] da “Il linguaggio in canzone e la rivoluzione lessicale, formale e tematica di Francesco De Gregori”, dispensa scritta dal docente Roberto Vecchioni, Università degli Studi di Torino-DAMS, corso di “Forme della poesia per musica”, anno accademico 2002-2003.

Nessun commento:

Posta un commento