domenica 4 dicembre 2016

“Faticare in campagna è il lavoro più bello del mondo, altro che vita in ufficio”

Da: Il Fatto Quotidiano.


Elisabetta, Teresa e Francesca hanno deciso di proseguire l'attività dell'azienda di famiglia. Si svegliano all'alba, si occupano della mungitura, degli altri animali che "ospitano" e dei vigneti. “Abbiamo deciso di rimboccarci le maniche e investire in un settore sempre più mortificato e con un basso tasso di ricambio generazionale”

“Ora sentiamo la responsabilità di portare avanti una storia, la nostra”. Hanno fatto studi tra loro diversi, ma hanno sempre amato la campagna. Fino a prendere in gestione un vigneto, ciliegi, campi coltivati ed una stalla. Sono Elisabetta, Teresa e Francesca, rispettivamente audioprotesista, studentesse di Enologia all’Università di Padova e Chimica e tecnologie farmaceutiche. Quel patrimonio fatto di terre e animali era l’azienda di famiglia, la Eredi Marcon di Mason Vicentino, in provincia di Vicenza. Prima era gestita dai genitori e dalla zia poi, da quando nel ’95 il papà è mancato, a portarla avanti sono state sole donne.
“Ogni giornata è diversa. Non ci annoiamo mai”
“Abbiamo deciso di rimboccarci le maniche e investire in un settore sempre più mortificato e con un basso tasso di ricambio generazionale”, dicono prima di passare a raccontare le loro giornate. “In realtà sono tutte diverse fra loro, anche se dobbiamo sempre e comunque prenderci cura degli animali e della terra. Possiamo dire che non ci annoiamo mai”. E a queste tre ragazze, tra i 23 e i 30 anni, l’entusiasmonon manca.
“Ci svegliamo all’alba – racconta Francesca – per la mungitura del latte che poi diamo a un’azienda per produrre il formaggio Asiago. Poi pensiamo agli altri”. Perché oltre alle mucche ci sono gatti, cani, galli, galline, conigli, un asino e Reginaldo, un’oca. Tutti da compagnia, ognuno orgoglio delle loro proprietarie. Come lo sono anche i ciliegi della tipologia autoctona di Marostica. “Abbiamo in cantiere un progetto per avviare la produzione di uno yogurt a chilometro zero con la nostra frutta”, spiega Teresa, la più giovane. “E mi piacerebbe trovare un modo per trasmettere l’importanza di questo lavoro. Magari partendo dalle piccole cose: insegnare a riconoscere la frutta di stagione o capire come vivono gli animali”.
“Abbiamo in cantiere un progetto per avviare la produzione di uno yogurt a chilometro zero con la nostra frutta”
Passione e duro lavoro, ma anche voglia di innovare guardando oltre l’Italia. Per questo Teresa ha appena terminato un’esperienza di alcuni mesi in un vigneto francese. “Ho potuto costatare un approccio diverso da quello italiano – racconta –, avendo anche la conferma di quanto sia importante per le piccole tenute come la nostra saper fare un po’ di tutto. Incluso riparare i macchinari, le cui spese di manutenzioneincidono non poco nel bilancio annuale”. Nella loro tenuta, le tre sorelle producono “due tipologie di vitigni autoctoni: Merlot e Cabernet: vendiamo l’uva alla cantina di cui siamo socie e da lì fanno il vino. E abbiamo acquistato ulteriori quote regionali per inserire anche un bianco e sono andata in Francia per imparare di più”.
“Dispiace che il settore agricolo sia, a volte, ingiustamente disprezzato o sottovalutato”
A volte, però, le norme complicano la gestione delle attività per i piccoli imprenditori. Come nel caso della vendemmia. “Vorremmo invitare i nostri amici a farla con noi come si faceva un volta – dice Francesca – ma non possiamo perché rischiamo una multa se non dimostriamo di pagarli. Siamo contro lo sfruttamento e una legge per impedirlo è giusta, ma si dovrebbe trovare una soluzione su questo aspetto”.
E anche il tema dei fondi europei è spesso un ostacolo per i giovani imprenditori agricoli: “Gli investimenti da proporre per avere accesso ai finanziamento, anche i più bassi, si aggirano intorno ai venticinque mila euro – spiega Elisabetta –. Per ora non facciamo debiti, ma è difficile pensare di poter vivere in tre senza fare investimenti”. Il futuro, quindi, lo vedono a contatto con la natura. “Io non riuscirei a lavorare in un ufficio, questo è il lavoro più bello del mondo – conclude Teresa –. Mi dispiace che il settore agricolo sia a volte disprezzato o sottovalutato. Anche perché dovremmo difendere la varietà e la qualità del nostro cibo”.


domenica 18 settembre 2016

Papa Francesco

IL PAPA: «IL MONDO È STANCO DI BUGIARDI, PRETI ALLA MODA, BANDITORI DI CROCIATE»

17/09/2016  Francesco riceve i nuovi vescovi del corso di formazione e chiede loro di lasciarsi “destabilizzare” dal Signore ed essere vicini alla gente e alla famiglie con fragilità per trasmettere la misericordia di Dio. E sulla formazione dei preti avverte: «Nei seminare bisogna puntare alla qualità e non alla quantità. Diffidare da chi si rifugia nella rigidità»


«Il mondo è stanco di incantatori bugiardi... e mi permetto di dire di preti o vescovi alla moda. La gente “fiuta” e si allontana quando riconosce i narcisisti, i manipolatori, i difensori delle cause proprie, i banditori di vane crociate». Parole nette, quelle di papa Francesco, che venerdì ha rivolto un lungo discorso ai vescovo nominati di recente e arrivati a Roma per un corso di formazione. Il Papa ha raccomandato anzitutto di rendere «accessibile, tangibile, incontrabile», la misericordia, che è il «riassunto di quanto Dio offre al mondo».

Ad ascoltare il Pontefice c’erano 154 nuovi vescovi (16 dei territori di missione) che hanno preso parte all’annuale corso di formazione promosso congiuntamente dalla Congregazione per i Vescovi e dalla Congregazione per le Chiese Orientali. «Pensate», ha detto il Papa, «all’emergenza educativa, alla trasmissione sia dei contenuti sia dei valori, pensate all’analfabetismo affettivo, ai percorsi vocazionali, al discernimento nelle famiglie, alla ricerca della pace: tutto ciò richiede iniziazione e percorsi guidati, con perseveranza, pazienza e costanza, che sono i segni che distinguono il buon pastore dal mercenario».

Le “strutture di iniziazione” delle Chiese locali, ha spiegato, sono i seminari: «Non lasciatevi tentare dai numeri e dalla quantità delle vocazioni, ma cercate piuttosto la qualità del discepolato», ha avvertito Bergoglio. «Né numeri né quantità: soltanto qualità. Non private i seminaristi della vostra ferma e tenera paternità». Il Papa ha chiesto di stare vicino a seminaristi facendoli crescere «fino al punto di acquisire la libertà di stare in Dio tranquilli e sereni», non preda «dei propri capricci e succubi delle proprie fragilità», ma liberi di abbracciare quanto Dio chiede loro. E ha aggiunto: «Vi prego pure di agire con grande prudenza e responsabilità nell’accogliere candidati o incardinare sacerdoti nelle vostre Chiese locali. Per favore, prudenza e responsabilità in questo. Ricordate che sin dagli inizi si è voluto inscindibile il rapporto tra una Chiesa locale e i suoi sacerdoti e non si è mai accettato un clero vagante o in transito da un posto all’altro. E questa è una malattia dei nostri tempi».

«LASCIATEVI DESTABILIZZARE DALLA MISERICORDIA DI DIO»

Inoltre il Papa ha raccomandato di accompagnare le famiglie «incoraggiando l’immenso bene che elargiscono» nella società, seguendo «soprattutto quelle più ferite» nel discernimento e con empatia: «Non “passate oltre” davanti alle loro fragilità. Fermatevi per lasciare che il vostro cuore di pastori sia trafitto dalla visione della loro ferita; avvicinatevi con delicatezza e senza paura. Mettete davanti ai loro occhi la gioia dell’amore autentico e della grazia con la quale Dio lo eleva alla partecipazione del proprio Amore». L’esortazione finale è a lasciarsi “destabilizzare”da Dio: la sua misericordia, ha proseguito Francesco, è la «sola realtà» che consente all’uomo di non perdersi «definitivamente».

Ciò si traduce allora in «non avere altra prospettiva» da cui guardare i fedeli che quella della loro “unicità”, non lasciando “nulla di intentato” pur di raggiungerli, non risparmiando “alcuno sforzo” per ricuperarli. La via è “iniziare” ciascuna Chiesa ad un cammino d’amore, quando oggi – ha constatato il Papa – «si è perso il senso dell’iniziazione».
Da: Famiglia Cristiana

mercoledì 14 settembre 2016

Il Sud si sta svuotando

Il Sud si sta svuotando, via mezzo milione di giovani
Per diplomati e laureati più facile lavorare in Grecia


SALVO CATALANO 
ECONOMIA – Tra 50 anni solo un italiano su quattro vivrà nelle regioni meridionali. È la stima dello Svimez sulla base del numero di emigrati dal Mezzogiorno a partire dal 2000: 1,7 milioni. La maggior parte giovani e con un alto livello di istruzione. «È un vero e proprio tsunami dalle conseguenze imprevedibili», scrivono gli analisti
Giovane, laureata e donna: è il profilo di chi negli ultimi 14 anni ha lasciato le regioni meridionali per andare a cercare fortuna altrove. Il Sud si sta svuotando. Dal 2001 al 2014 quasi 1 milione e 700mila persone sono emigratedal Mezzogiorno. Poco meno della metà - 744mila - non sono più tornati. E tra questi ultimi che hanno scelto di vivere definitivamente altrove, 526mila sono giovani, il 40 per cento con un percorso universitario alle spalle. Un esodo ormai strutturale fotografato nell'ultimo dossier di Svimez, l'Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno. 
Il risultato è che il Sud negli ultimi 14 anni ha registrato un calo di popolazione di 196mila unità, mentre il Centro-Nord un aumento di 315mila. E nel futuro le cose peggioreranno: secondo le previsioni nel 2065 solo un italiano su quattro vivrà nelle regioni meridionali. Il Sud alla fine del prossimo cinquantennio, perderà infatti 4,2 milioni di abitanti, oltre un quinto della sua popolazione attuale. «Un vero e proprio tsunami dalle conseguenze imprevedibili», scrivono gli analisti di Svimez.
Colpa soprattutto del lavoro che non c'è. Negli ultimi sei anni su dieci nuovi disoccupati, sette sono stati al Sud. Il risultato è che solo un quarto di tutti gli occupati d'Italia si concentra nelle regioni meridionali: sono 5,8 milioni. Mai così pochi dal 1977. A non lavorare soprattutto i giovani: nel Mezzogiorno il 56 per cento di quelli compresi tra 15 e 24 anni. I laureati hanno un tasso di occupazione del 31,9 per cento. Fanno peggio i diplomati, con il 24,7 per cento. Dati che fanno sprofondare il Meridione nelle classifiche europee, peggio della Spagna e della Grecia, dove a tre anni dal titolo il tasso di occupazione di diplomati e laureati tra i 20 e i 34 anni è rispettivamente del 65 e del 44 per cento. La media nell'Unione europea è del 76 per cento. 
Per l'Italia il confronto con l'Europa è impietoso anche se si prende in considerazione il numero di Neet (Not in education, employment or training), cioè quei giovani che non studiano, non lavorano né ci provano. Nel 2014 erano 3,5 milioni, aumentati del 25 per cento rispetto al 2008. Di questi, due milioni sono donne e due milioni sono meridionali. Anche nel resto d'Europa gli sfiduciati sono aumentati, ma di appena il 3 per cento negli ultimi sei anni. «La progressiva emarginazione dei giovani anche istruiti - si legge nel rapporto Svimez - dai processi produttivi determinata dalla crisi recessiva è confermata dalla dinamica crescente dei giovani Neet per essi, la difficoltà a trovare un’occupazione si accompagna ad un crescente scoraggiamento che li allontana non solo dal mercato del lavoro ma anche dal circuito dell'istruzione». Ma sul dato nazionale pesa come un macigno quello del Sud. Il resto del Paese, sottolineano gli analisti, viaggia tutto sommato in linea con l'Europa. Il Mezzogiorno corre veloce verso il baratro. 

venerdì 8 luglio 2016

Sagra del fico d'india a Scandale .


Era  tradizione nel mese di settembre (per le prime edizioni) poi spostata all'ultimo sabato di agosto, organizzare la Sagra del fico d'India, a cura della Pro Loco di Scandale .
 È la sagra nata attraverso i racconti che si tramandano di generazione in generazione sulla raccolta e la vendita di questo particolare frutto.
“Si racconta che negli anni cinquanta quando l'economia della maggior parte delle famiglie di Scandale era agricola, i contadini di Scandale barattavano i fico d'india nei vari mercati del Marchesato con patate, con verdura,e con altri prodotti della terra quindi ai fichi d'india di Scandale era riconosciuta una qualità esclusiva”
Tantissima la gente che veniva a Scandale  da tutta la provincia, e non solo, per assaggiare un po' di risotto al fico d'India, o magari una coppetta di gelato, passando per il liquore, ai vari dolci.

mercoledì 6 luglio 2016

Romano Cizza - Un ricordo di Ezio Scaramuzzino

 

(Romano Cizza)

Gli anni perduti

Sono al paese, che non rivedo da un po’ di tempo. Non mi è facile trovare un posteggio, cosa una volta facilissima. Giro tutt’intorno, in lungo e in largo, e alla fine  trovo un angolino in piazza Oberdan, di fianco alla colonnina del carburante, dove una volta le auto si fermavano a fare il pieno con un paio di migliaia di Lire. Gaetano Citriniti, il gestore, interrompeva ogni altra attività del suo multiforme esercizio commerciale ed accorreva ogni volta che qualche autista impaziente lo chiamava a colpi di clacson. Ricordo le risate tra amici, quando qualcuno raccontava del contadino che, vista per la prima volta quella colonnina che misurava il carburante con delle lancette, si fermò a regolare il suo orologio. Ora Gaetano non c’è più, anche la pompa di benzina sembra abbandonata ed è chiusa anche la porta di quella sua cantina, dove una volta tanti paesani andavano a bere un bicchiere di vino, magari con un rametto di sedano che faceva capolino da una delle tasche della giacca.
Fa molto caldo e il sole picchia in maniera inclemente sulle persone e sulle cose. Ho bisogno di un po’ d’ombra e mi dirigo sul lato opposto della piazza, sulla veranda, dove una volta era l’ingresso del Bar Centrale. In quel bar, ancora ragazzo, ho giocato le mie prime partite di Terziglio e, insieme con gli amici di un tempo, ho dato alimento ai primi sogni della mia vita. Lì ho conosciuto alcune persone, che ricordo ancora con gratitudine e simpatia, come l’avvocato Giuseppe Barca  o il truffatore Cesarino Moncalvo. Lì ho trascorso una parte della mia giovinezza ad osservare il passeggio sulla piazza antistante o a scambiare quattro chiacchiere con Gigi Paparo, il proprietario del bar. Gigi gestiva contemporaneamente il bar ed un negozio di alimentari posto sul retro e correva da una parte all’altra, sempre con una biro appoggiata sull’orecchio destro, che afferrava velocemente  per fare conti e riponeva subito dopo in miracoloso equilibrio. Quando c’erano pochi avventori ed il lavoro era ridotto al minimo, Gigi ne approfittava per leggere la sua immancabile ed amata Domenica del Corriere, che teneva sempre al suo fianco e che metteva a disposizione dei clienti solo quando usciva il nuovo numero. Ricordo ancora con affetto Gigi, che sarebbe scomparso prematuramente, lasciando nel dolore la moglie e i tre figli.

Sulla veranda non ci sono più le sedie e i tavolini di un tempo e la porta di ingresso è malinconicamente chiusa. Mi siedo all’ombra sul marciapiede antistante e osservo da lontano, sul lato opposto della piazza, le finestre e la porta chiusa del Bar Sportivo. Solo l’insegna in alto, scolpita in cemento, ricorda che lì c’era un altro ritrovo di noi giovani, che vi andavamo a giocare al flipper o al calcio balilla. Il gestore era un giovane come noi, Gaetano, e passava più tempo con noi a giocare, che dietro il bancone a servire i rari clienti. Si giocava molto al flipper allora e il premio per il vincitore dei vari tornei era quasi sempre una piccola torta Fiesta, che vinsi più di una volta, suddividendola poi con gli amici e bevendoci sopra un bicchiere di birra. Gaetano un giorno, assunto come vigile urbano, avrebbe cessato di fare il barman, preferendo giustamente lo stipendio modesto, ma sicuro, alla fine del mese, piuttosto che gli incassi aleatori della sua attività commerciale.

Mi alzo  e mi incammino lungo viale Puccini, la strada della mia fanciullezza. Su quella strada abitavano i Garieri, i De Biase, i Tallarico. Vedo venirmi incontro Peppe Coriale, detto “’U Zaré”. Faccio un rapido calcolo e penso che dovrebbe essere ultracentenario , mentre la sua immagine sembra essersi fermata  al tempo di quando io ero bambino. Mi sorride e io ricordo di quando, ragazzo, sotto un grande albero posto di fronte casa mia, in Estate,  gli leggevo la novella di Mazzarò e lui ascoltava incantato ed affascinato. E non si stancava mai e mi chiedeva di leggergli e raccontargli ancora una volta la novella di Mazzarò, che da uomo povero e miserabile era finito col diventare il padrone di tutto il paese. Questa volta però Peppe non mi chiede di raccontargli ancora una volta quella storia. Mi tocca sulle braccia, come se volesse controllare la mia consistenza, poi si limita ad accennare un saluto con la mano e infine, silenziosamente, scivola via. Mi giro indietro a seguire con lo sguardo il suo cammino e non lo vedo più, come se  si fosse dissolto nella nebbia del tempo.
Arrivo allo spiazzo antistante la cappelletta di San Leonardo. Nella luce accecante del primo pomeriggio ho l’impressione di vedere sull’uscio di casa Nonna Betta, vispa e incline a scherzare un po’ con tutti, ma che non sopportava in alcun modo gli schiamazzi e gli strilli dei bambini. Quante storie con lei e quante fughe, quando  ci inseguiva con la scopa e ci costringeva ad interrompere i nostri giochi! Altri tempi e altri trastulli, quelli della mia fanciullezza, quando ci bastava poco per essere felici e un semplice ramo appuntito bastava a farci sentire invincibili come Zorro. Costruivamo degli aquiloni ritagliando la carta dei giornali, che poi incollavamo con farina e acqua. Eppure quegli aquiloni, incredibilmente pesanti, volavano e si libravano in aria leggeri come farfalle: forse erano sospinti in alto  dai nostri desideri di fanciulli che si affacciavano alla vita. Mi volto  a guardare ancora nonna Betta, ma l’uscio è deserto e ho l’impressione di avvertire soltanto il cigolio lamentoso di  un’anta che sembra richiudersi su se stessa. 
Sulla sinistra, ad una biforcazione, c’è un viale che porta all’edificio scolastico, dove tanti anni fa ho mosso i primi passi di insegnante. Non opero alcuna scelta nel decidere la mia direzione e  muovo i miei passi verso quel viale. Non so perché succeda: forse sono alla ricerca della mia identità perduta, forse voglio solo recuperare le ombre e i fantasmi di una vita che non c’è più. Sollevo gli occhi e vedo una signora che mi sorride e mi saluta. Qualche piccola ruga che increspa il suo volto non mi impedisce di riconoscerla:è Marilù. Mi prende sottobraccio  e mi invita dolcemente a ritornare indietro. Vorrei farle tante domande, chiederle dove si trova, dirle che l’ho ricordata a lungo, ma mi accorgo che un pizzico di emozione, ancora dopo tanti anni, mi rende impreparato e incredulo. Camminando, ci guardiamo in silenzio:lei è ancora bella, come una volta, come in quella Primavera di tanti anni fa, quando entrambi eravamo meravigliati della nostra felicità e procedevamo insieme, senza sapere e senza preoccuparci di quello che la vita ci avrebbe riservato. Quando ci fermiamo, Marilù si stacca dolcemente dal mio braccio, mi accarezza il volto, continua a sorridere, si allontana e infine sembra dissolversi, ombra tra le ombre. Non la vedo più.
Affronto una leggera salita, quella che  porta verso la strada Nazionale. Ho voglia di fermarmi un pochino e mi appoggio ai tubi e al muretto basso dove una volta, in Estate, ascoltavamo tutti insieme le avventure dell’avvocato Barca. Vedo arrivare in lontananza Romano, Romano Cizza, e ho un tuffo al cuore. Quanti giorni della nostra vita abbiamo trascorso insieme! Quanti ricordi! Caro Romano! Come è possibile che tu sia qui? Viene con decisione verso di me e, quando mi è accanto, gli chiedo degli altri. Gli dico che ogni tanto vedo Totò al paese, ma gli altri, gli altri certo, Ciccio e Nino Simbari, Ciccio Rizzuto, e Totò Rizzuto, “il capitano” come lo chiamavamo, e Leonardo e Mimmo, e tutti gli altri, dove sono? Eravamo partiti  insieme, quasi tenendoci per mano, per affrontare meglio le tempeste e poi ci siamo persi, lungo le strade e i sentieri della vita. Romano mi sorride mestamente, ma non parla e si avvia da solo lungo la strada. Istintivamente mi viene voglia di seguirlo, per fargli altre domande, per chiedergli se ha qualche rimpianto, qualche desiderio. Vorrei anche chiedergli se ha  qualche segreto da svelarmi ora che, nella sua condizione, avrà certamente capito  il senso della vita e ancora  se si trova bene dove si trova. Romano si gira improvvisamente, mette un dito sulle labbra, come per suggerirmi il silenzio, e con la mano mi fa chiaramente capire che non debbo seguirlo.
Avverto un senso di smarrimento e di vertigine e, mentre mi appoggio ai tubi del muretto basso, chiudo strettamente gli occhi. Li riapro con fatica, perché la luce del sole intorno è ancora abbagliante, e vedo che accanto a me c’è un bambino. Avrà sei o sette anni quel bambino e mi guarda con l’atteggiamento di un monello di strada, quasi con un senso di sfida. Poi mi fa marameo con la mano sinistra, puntando il pollice sul suo nasino affusolato e con la destra accenna un saluto. Lo osservo con attenzione:ha i capelli castani, qualche ricciolo in testa, le guance paffute, dei pantaloncini  sporchi di sabbia, un ginocchio sbucciato, una fionda che fa capolino dalla tasca posteriore.”Mi riconosci?”, mi chiede. Gli rispondo gentilmente che, purtroppo, non so chi sia. E lui ancora: “Possibile che non mi riconosci?”. Lo guardo ancora e noto che sulla palpebra sinistra ha una piccola cicatrice, quasi impercettibile. E allora lo riconosco: è lui, giunto fino a me attraverso i  sentieri del tempo e dello spazio. Allungo una mano e gli scompiglio affettuosamente i capelli, lo accarezzo, prendo la sua piccola mano.
Vorrei tanto trattenerlo con me, perché l’ho tanto cercato. Ma in lontananza appare una giovane donna  e mi accorgo che ci sta osservando . Una strana ed improvvisa folata le scompiglia i capelli che ondeggiano al vento. Lei si aggiusta i capelli e con una voce dolcissima chiama a lungo: ”Ezioooooo…”. Rivedo in un attimo, come in un flashback, la mia vita, gli anni perduti. Il bambino lascia dolcemente la mia mano. “Debbo andare”, mi dice. Poi se ne va e si dirige verso quella giovane donna, porgendole la sua piccola mano. Entrambi si avviano, si girano indietro per l’ultima volta, come per un ultimo saluto, poi si allontanano e spariscono nel nulla.

lunedì 27 giugno 2016

Scandale - Foto scandalesi.

                                                       
                                         
   
Fotografie - Archivio fotografico Luigi Aprigliano - Scandale 
Musica e parole  - Pantaleone (Ponto) Paparo - Montrèal (Canada)
Video - Luigi Demme - Scandale .

sabato 25 giugno 2016

U.S. Scandale -

                                                 (Valentino Castagnino - Domenico Marazzita)
                        

L'U.S. SCANDALE VINCE LA COPPA DISCIPLINA DI PRIMA CATEGORIA PER IL CAMPIONATO 2015/2016


Un pò di Storia dal Blog di Luigi Santoro storiadiscandale.blogspot.it :


Sulla fine degli anni Cinquanta, dopo che molti cittadini si impegnarono a sensibilizzare l’opinione pubblica allo sport, anche mediante un ciclo di partite di calcio ben condotte con squadre dei centri vicini, Scandale si costituì in Unione Sportiva (U.S. Scandale), chiedendo nello stesso tempo l’affiliazione alla Federazione Italiana Gioco Calcio.
Fu creato un Consiglio Direttivo così composto: presidente, insegnante Nicola Paparo; vice presidente, sig. Gaspare Pupo (direttore delle Poste locali); segretario, il rag. Salvatore Pagano (ufficiale postale); cassiere il dottor Lulù Scaramuzzino. Consiglieri: Pasquale Brescia (Sindaco del Comune); Guido Castagnaro (Segretario Comunale); Gino Scalise, Carlo Tallarico, Giuseppe Ierardi e Salvatore Oliverio. Istruttore Tecnico, sig. Gaspare Pupo.

Molti anni dopo, l’attività sportiva continuava dando anche alcuni frutti, come risulta dall’articolo di Gino Scalise pubblicato dal giornale “Il Tempo” di Roma il 13 dicembre 1966:

Nell’intento di meglio sostenere la locale, promettente squadra calcistica, che, con onore, tallonandola da presso, contende alla capolista Siberene la prossima vittoria finale del campionato Juniores, organizzato dalla Lega Giovanile della FIGC, e in vista anche dello svolgimento delle attività federali, si è tenuta a Scandale una nutrita assemblea sportiva.
Erano tra gli altri presenti, il Sindaco comm. Francesco Guarascio, il dott. Franco Ceraldi, il presidente uscente prof. Vittorio Girimonti Greco, tutti gli altri dirigenti nonché gli stessi atleti.
Dopo un’esauriente relazione del direttore tecnico, rag. Mario Cognetti, cui hanno fatto immediato seguito concrete dimostrazioni di simpatia e di sostegno da parte dei numerosi sportivi, è stato eletto il nuovo direttivo, che risulta così composto: presidente dott. Franco Ceraldi, vicepresidente Froio Giovanni, segretario studente universitario Bomparola Raffaele, direttore tecnico rag. Mario Cognetti, organizzatore tecnico rag. Antonio Rizzuto, disciplinatore in campo studente universitario Scaramuzzino Aurelio; consiglieri i sigg. geom. Giovanni Trivieri, Gino Scalise, studente universitario Scaramuzzino Ezio, prof. Girimonti Greco Vittorio, Trivieri Raffaele, Simbari Angelo e Artese Pierino, questi ultimi due consiglieri incaricati del materiale sportivo.
L’assemblea ha applaudito, ed il Consiglio Direttivo ha nominato presidente onorario il Sindaco comm. Francesco Guarascio.


sabato 28 maggio 2016

Ignazio Buttitta - Lingua e dialettu.


                                                              ( Profazio - Buttitta)
Lingua e dialettu
Un populu
mittitilu a catina
spughiatilu
attuppatici a vucca
è ancora libiru.

Livatici u travagghiu
u passaportu
a tavula unnu mancia
u lettu unnu dormi,
è ancora riccu.

Un populu
diventa poviru e servu
quannu ci arrubbanu a lingua
addutata di patri:
è persu pi sempri.



Diventa poviru e servu
quannu i paroli non figghianu paroli
e si mancianu tra d’iddi.
Mi nn’addugnu ora,
mentri accordu la chitarra du dialettu
ca perdi na corda lu jornu.

Mentre arripezzu
a tila camuluta
ca tissiru i nostri avi
cu lana di pecuri siciliani.

E sugnu poviru:
haiu i dinari
non li pozzu spènniri;
i giuelli
e non li pozzu rigalari;
u cantu
nta gaggia
cu l’ali tagghiati.

Un poviru
c’addatta nte minni strippi
da matri putativa,
chi u chiama figghiu
pi nciuria.

Nuàtri l’avevamu a matri,
nni l’arrubbaru;
aveva i minni a funtana di latti
e ci vìppiru tutti,
ora ci sputanu.

Nni ristò a vuci d’idda,
a cadenza,
a nota vascia
du sonu e du lamentu:
chissi non nni ponnu rubari.

Non nni ponnu rubari,
ma ristamu poviri
e orfani u stissu.

Ignazio Buttitta 
(1970)