lunedì 6 agosto 2012

Manlio Rossi Doria - Una vita per il sud

                                                   (Manlio Rossi Doria primo da sx  )


 
da: Manlio Rossi Doria a Guido Dorso, 20 novembre 1944, in Manlio Rossi-Doria, Una vita per il Sud, Donzelli, 2012, pp. 5-8.

Che cosa aspettiamo?
Roma, 20 novembre 1944
Caro Guido,
ti scrivo con uno scopo preciso, ma credo che continuerò a scrivere contento d’aver finalmente afferrato il pretesto per parlare con te di tante cose che mi girano in testa. Lo scopo preciso è questo: De Filippis da Bari mi telefona perché io insista con te per indurti a venire a Bari al Convegno del 3-4 dicembre, dove giustamente ritengo la tua presenza e la tua relazione indispensabili. Lo faccio tanto più volentieri, in quanto, essendo anch’io relatore, non potrei fare a meno del tuo giudizio e di lunghe conversazioni con te. Spero quindi di avere conferma. Spero anche che al Convegno intervenga Ugo e altri amici di qui. Cosa sarà il Convegno esattamente non so: so soltanto che sarà un nostro nuovo incontro e un altro tentativo di dar precisione a idee nuove e necessarie (…)
Qualche volta ho l’impressione che nessuno lavori, che tutti aspettino per lavorare: chi dovrebbe costruire aspetta per costruire, chi dovrebbe far politica aspetta a farla, chi dovrebbe governare aspetta per governare. Ho l’impressione che a lavorare veramente, oggi, in questa Italia liberata non ci siano che la gente del mercato nero, le puttane e i contadini, oltre ai preti e la gente che ha da salvare le sue vecchie posizioni guadagnate negli anni andati. Questo, naturalmente, se per lavorare si intende quel che di solito si intende, cioè il fare una determinata cosa con un determinato scopo e con mezzi adeguati allo scopo. Gli altri, ripeto, aspettano sia poi questa aspettativa agitata e rumorosa o quasi inerte e tranquilla.
Aspettano: Aspettiamo che? A questa domanda non so trovare una risposta: aspettiamo d’aver toccato il fondo, il fondo che - è chiaro – non abbiamo toccato e senza del quale il fare non avrebbe senso.
Questa risposta – non so come spiegarti -. Mi fa apparire quello strano attendere come qualcosa di sano, come una garanzia. Nello stesso tempo, però, mi lascia una gran paura in corpo: la paura, non tanto di scendere più in basso di quanto è necessario (perché il fondo, mi sembra, non può esser che uno) , quanto di restare, una volta toccato il fondo, altrettanto incerti quanto oggi e per di più impediti nei nostri movimenti da tutti gli intralci e le impalcature che gli agitati e la gente interessata a salvare il proprio avranno nel frattempo costruito.
In questo dilemma e nella considerazione di tutto il tragico che esso comporta ci sarebbe da disperarsi, perché non si riuscirebbe a vedere per quali vie forze sane di rinnovamento, di rivoluzione potrebbero farsi strada. Il conforto sta solo nel pensare che una rivoluzione è in atto in quegli stessi processi oscuri che la catastrofe economica e monetaria sta provocando: c’è un profondo rinnovamento di classi sociali che racchiude tutta la possibilità di una rivoluzione . Una rivoluzione che non è facile intendere e incanalare, che non è facile saldare con quell’altra più alta rivoluzione che i nostri amici che son morti e muoiono combattendo personificano.

Nessun commento:

Posta un commento