venerdì 22 marzo 2013

Elogio del voltagabbana. Origine e storia di un tabù

Autore: Bianco Pialuisa

In questo saggio provocatorio e politicamente scorretto è ricostruita l'origine del voltagabbana a partire dalla sua apparizione sulla scena dell'Europa moderna nel fuoco giacobino della Rivoluzione Francese.







I voltagabbana

Voltagabbana è una parola composta che nasce dall’accostamento di un verbo (voltare) al sostantivo gabbana, un vocabolo di origine araba, qabā’, che in arabo significa “tunica da uomo dalle maniche lunghe” e, in italiano, è passato invece a indicare -secondo il Gabrielli- un “soprabito largo e lungo, senza cintura, spesso con cappuccio e talvolta foderato di pelliccia”: un indumento, insomma, che si poteva voltare e che, avendo la fodera di colore diverso dalla stoffa esterna, far cambiare colore a chi l’indossava.
Da qui a indicare metaforicamente, con questo neologismo, colui che cambia opinione il passo deve essere stato assai breve, assumendo poi col tempo anche una connotazione del tutto negativa: voltagabbana è diventato così colui che, secondo il Devoto-Oli, “cambia opinione facilmente e con grande leggerezza, per tornaconto personale”.
Secondo la giornalista Pialuisa Bianco, che all’argomento ha dedicato nel 2001 un libro, L’elogio dei voltagabbana: origine e storia di un tabù, tale connotazione sarebbe apparsa sulla scena dell’Europa moderna nel fuoco giacobino della Rivoluzione francese. E con molta probabilità le cose stanno come essa scrive: l’illuminismo e i movimenti politici che ne sono derivati, proprio perché hanno aperto la strada alla democrazia e quindi reso possibile l’ingresso nella sfera del potere di ceti che fino ad allora ne erano esclusi, non potevano non chiamare contemporaneamente alla coerenza e alla responsabilità i nuovi detentori del potere che di fronte a sè avevano, ad eleggerli, non più sudditi ma cittadini.
Ma torniamo a quel che Pialuisa Bianco pensa dei voltagabbana e del giudizio negativo insito nel termine che li definisce.
Figlio, ella scrive nelle note di copertina (come leggo su Internet), del partito ideologico moderno prefigurato dal giacobinismo, il mito negativo è rimasto un archetipo del secolo dei totalitarismi, il Novecento, per approdare nell’Italia di oggi”.Per l’autrice, “cambiare è un diritto assoluto, non ha aggettivi”. Se non nei totalitarismi.
Naturalmente, date queste premesse, la conclusione a cui Pialuisa Bianco arriva non poteva che essere una sola: “il voltagabbana non esiste, è un’invenzione, uno dei tanti idola fori di cui si serve la politica, dettato dall’insicurezza dei contendenti a riconoscersi come legittimi avversari”.
Ma stanno davvero così le cose?
La domanda nasce da una constatazione che chiunque è in grado di fare alla vigilia di ogni appuntamento elettorale: pochi mesi prima del voto inizia sui giornali la sarabanda delle notizie di chi lascia chi e di dove è intenzionato ad approdare al momento della presentazione delle liste, conservando ovviamente nel frattempo gli incarichi che ricopre nello schieramento che si prepara ad abbandonare.
Ebbene, che cosa ha che fare tutto questo con il diritto di cambiare opinione? E con i totalitarismi e il riconoscimento dell’avversario?
Chi cambia opinione perché ne ha maturate nel frattempo altre, se vuole restare davvero coerente con le sue idee attuali ed essere onesto e responsabile nei confronti di chi lo ha eletto, lascia anche a tempo debito il cadreghino e rinuncia ai benefici conquistati con i suoi precedenti orientamenti.
Che io sappia, ciò non accade normalmente come invece dovrebbe essere. Per convincersene, basta scorrere le cronache politiche ed elettorali di questi ultimi due decenni alla voce elezioni.
A questo punto, però, sicuramente qualcuno si chiederà perché mai questo poste una così lunga tirata sui voltagabbana.
Li vediamo occupare la scena ormai da così tanto tempo che ci abbiamo fatto tutti l’abitudine e la gente non solo non si stupisce di questi continui cambi di casacca ma continua a votarne i protagonisti, come se nulla fosse.

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